Una proposta popolare che deve fare i conti con resistenze diffuse

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Lo scetticismo scontato di Beppe Grillo, che definisce la proposta una presa in giro, lascia capire che impatto avrebbe se non lo fosse. E la prudenza di esponenti del Pd e del Pdl conferma, implicitamente, il timore che Palazzo Chigi incida in profondità  nella vita dei partiti. Nei commenti affiora qualcosa di più del sospetto di un’operazione demagogica. Eppure, dovranno faticare per smontarla o neutralizzarla.
È prevedibile piuttosto una trattativa non facile fra governo e forze politiche alleate per ottenere il «via libera» a un taglio effettivo dei costi. Enrico Letta avverte che indietro non si torna. E nessuno dei leader accetterà  di apparire come frenatore di un’operazione attesa dall’opinione pubblica; figlia della delusione e della rabbia per le riforme non fatte nella scorsa legislatura; e cavalcata per mesi dagli stessi partiti. Si fa presente, giustamente, che in quasi tutta Europa le forze politiche ricevono soldi dallo Stato: a cominciare proprio dalla Germania del rigore economico. E si invita a fare attenzione a non consegnare il potere a gruppi di pressione opachi, in grado di «scalarlo» prima economicamente e poi politicamente.
È difficile, però, che queste osservazioni, in sé legittime, bastino per annullare l’iniziativa presa ieri in Consiglio dei ministri. Il tentativo è di abbracciarla, non di respingerla; e in parallelo evitare che crei troppi sconquassi. «È una scelta giusta» abolire il finanziamento pubblico, si affetta a dire il segretario del Pd, Guglielmo Epifani. Ma la cosa va condotta «gradatamente» per tutelare coloro che lavorano nei partiti, aggiunge. Rispetto a una nomenklatura di migliaia di persone che vivono di politica, il timore è che una riduzione delle spese aumenti la disoccupazione anche lì. La gradualità  invocata da Epifani è dunque la stessa che vuole il Pdl e in generale qualunque forza politica.
Le reazioni agli antipodi che si registrano nel centrodestra sono significative, in proposito. Fabrizio Cicchitto ammette di nutrire «forti dubbi sull’abrogazione totale. Come al solito in Italia si passa da un estremo all’altro. Il risultato finale, a regime, sarà  che quattro o cinque lobby, quale che sia la loro regolamentazione, spadroneggeranno in parlamento, negli enti locali e nel Paese». Mara Carfagna, portavoce del Pdl, sostiene invece che sia «la migliore risposta all’antipolitica che ancora dilaga». Ma perfino nel M5S si coglie qualche contraddizione. Grillo liquida tutto come una buffonata. Il capogruppo alla Camera, Roberta Lombardi sospetta un’operazione di propaganda ma concede: «Se è vero collaboreremo». Insomma, intorno alla proposta rimane un alone di ambiguità  e di scetticismo.
Vanno messe nel conto resistenze che oggi appaiono di principio, ma presto riguarderanno il modo concreto di declinare l’abrogazione dei finanziamenti. Non si può sottovalutare la possibilità  che l’iniziativa perda spinta nel momento in cui si tratterà  di definirne i contorni; e che si trasformi in una legge-manifesto destinata a essere lodata e in parallelo sottilmente boicottata dai partiti di governo. I distinguo e gli attacchi sempre più espliciti riservati soprattutto dal Pd alle ipotesi di riforma elettorale abbozzate nei giorni scorsi dal premier e dal ministro delle Riforme, Gaetano Quagliariello, inducono a misurare con freddezza le difficoltà . L’ambasciatore Usa in Italia, David Thorne, scommette sulla durata di Enrico Letta a Palazzo Chigi «molto più di quanto si pensi». Silvio Berlusconi giura sostegno leale. Ed Epifani esclude contraccolpi sul governo se le amministrative di domani vanno male. La paura resta un buon antidoto alle urne.


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