Welfare – austerità : 1-0 sul campo del diritto internazionale

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L’inserimento della mera programmazione dei diritti economici, sociali e culturali nelle agende dei governi dovrà  lasciare il posto alla definizione delle risorse economiche, istituzionali, umane finalizzate a garantire il loro effettivo godimento. Anche i diritti economici, sociali e culturali, tra i quali i diritti al cibo, alla casa, all’educazione o alla salute, sono infatti divenuti oggetto di un meccanismo giuridico di garanzia internazionale. I governi saranno quindi chiamati a rispondere per la loro eventuale mancanza o per la loro limitazione ai soli cittadini del proprio Stato: dovranno goderne anche coloro che si trovano sul territorio nazionale privi della cittadinanza (siano essi turisti, lavoratori temporanei o immigrati); peraltro i vincoli di tutela dello Stato scavalcheranno anche i confini extraterritoriali, nel caso in cui i propri comportamenti possano danneggiare altri esseri umani all’estero (si pensi ai danni ambientali).

Non mancano gli esempi di quanto, troppo spesso, i governi facciano promesse a vuoto e non adempiano ai loro obblighi internazionali in materia. Ad esempio, alcuni non intraprendono le misure necessarie per garantire un’eguaglianza sostanziale ai gruppi emarginati, specialmente a chi ha minori risorse economiche. Alcuni non riescono a prevenire, indagare e punire i responsabili di abusi dei diritti umani, specie nel settore ambientale o in quello occupazionale come si è visto nel tragico caso dell’Ilva di Taranto. Altri ancora violano deliberatamente i diritti delle persone, ad esempio quando le sgomberano forzatamente dalle loro abitazioni e le lasciano senza un alloggio adeguato, o ancora quando non assicurano il diritto al cibo alla popolazione.

, è conosciuto come Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Permette agli individui, o a gruppi di persone, di presentare una petizione all’Onu nel caso in cui essi ritengano che i propri diritti siano stati violati da uno Stato membro. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ha parlato di “un grande passo in avanti che ha finalmente colmato una lacuna di lunga data nel diritto internazionale, contribuendo a risolvere questo squilibrio storico per cui le gravi violazioni dei diritti economici, sociali e culturali che si verificano quotidianamente, spesso inosservate, in materia di diritti civili e politici sarebbero state immediatamente condannate”. E in effetti il Protocollo equivalente al Patto internazionale sui diritti civili e politici è entrato infatti in vigore ben 37 anni fa (nel marzo 1976)!

Tuttavia, in quanto strumento convenzionale, potranno adire al Protocollo solo quei Paesi che accettano, con una formale ratifica del trattato, di sottoporsi a un monitoraggio costante. Esso prevede anche la possibilità  per gli organi societari di effettuare indagini esplorative. Si tratta di un limite evidente (pur logico in quanto determina una notevole restrizione della sovranità  statale in nome della tutela della dignità  di ogni essere umano), che ha frenato l’entrata in vigore del Protocollo, in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani e aperto alla ratifica degli Stati sin dal 2009. Solo all’inizio di questo anno, si è avuta la ratifica dell’Uruguay, decimo paese che ha accettato il Protocollo, insieme ad Argentina, Bolivia, Bosnia-Erzegovina, Ecuador, El Salvador, Mongolia, Portogallo, Slovacchia e Spagna: si è così raggiunto il numero minimo necessario all’entrata in vigore.

Un numero che tuttavia rimane piuttosto esiguo, e che si spera conoscerà  un innalzamento considerevole con l’adesione dei Paesi dell’Unione Europea, specie di Belgio, Finlandia, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Slovenia che hanno firmato, ma non ratificato, il Protocollo. Amnesty International in particolare ha sollecitato gli Stati dell’area UE alla ratifica del Protocollo, invitandoli a “tener conto dell’impatto sui diritti umani delle misure di austerità . La crisi finanziaria e le misure adottate da molti stati membri dell’Unione Europea hanno inciso su vari diritti economici e sociali, tra cui quelli che assicurano l’accesso ai servizi di sicurezza sociale, all’alloggio, alla salute, all’istruzione e al cibo. Esse si sono riverberate in modo sproporzionato sulle persone più povere ed emarginate. Questo aspetto pare del tutto assente, nonostante gli obblighi esistenti di garantire che ogni persona benefici dei diritti economici, sociali e culturali senza discriminazione. Questi obblighi significano che i governi devono continuare a proteggere i diritti umani anche durante la recessione. Il diritto internazionale, infatti, prevede che le misure di austerità  debbano garantire livelli minimi di tutela dei diritti: ad esempio, nessuno deve rimanere senza alloggio, cibo o mezzi di sopravvivenza né essere privato di cure mediche essenziali.”

Un appello sacrosanto nel momento in cui la disoccupazione investe l’Europa e la malnutrizione torna a farsi vedere sul continente. Se infatti le autorità  nazionali e regionali non forniscono adeguate risposte e garanzie ai diritti fondamentali di ogni persona alla casa, al cibo, all’acqua, ai servizi igienico-sanitari, alla salute, al lavoro, alla sicurezza sociale e all’istruzione, allora è del tutto auspicabile che una persona possa chiederne conto alle Nazioni Unite.

Miriam Rossi


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