Erdogan minaccia la piazza «La pazienza ha un limite»

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ISTANBUL — In piazza Taksim è quasi impossibile muoversi, la folla continua ad affluire senza sosta da viale Istiklal mentre una voce scandisce gli slogan della rivolta e grida: «Siamo tanti oggi e domani di più, la piazza resisterà». Contemporaneamente a 500 chilometri di distanza, atterrando all’aeroporto di Ankara, Recep Tayyip Erdogan avvisa: «Siamo rimasti pazienti, siamo ancora pazienti, ma c’è un limite alla nostra pazienza». I toni non sono concilianti e tutti si chiedono come finirà questo braccio di ferro tra i ragazzi asserragliati nel parco Gezi e il governo che vanta da più di dieci anni un solido consenso popolare.
Sul Bosforo una barca a vela mostra orgogliosa la scritta «Siamo tutti çapulcu (vandali come il premier ha definito i manifestanti ndr)» e la gente dai traghetti vicini si alza in piedi per applaudire. Sulla riva di fronte decine di poliziotti dormono, appoggiati ai giubbotti antiproiettile, negli autobus comunali fermi da giorni davanti al Palazzo Dolmabahçe, l’ex residenza ottomana di Atatürk a Besiktas dove Erdogan ha voluto stabilire il suo ufficio. Sono gli agenti di sicurezza le nuove vittime della rivolta. Proprio loro, finiti sul banco degli accusati per le violenze nei confronti dei manifestanti, vivono una situazione disperata: nell’ultima settimana, stando alle rivelazioni del sindacato, in sei si sono suicidati. I poliziotti non hanno retto alla pressione, ai turni di lavoro disumani e alle pesanti critiche che si sono riversate su di loro. Non ultima la testimonianza di uno studente sull’Hurriyet che ha raccontato l’inferno cui è stato sottoposto dagli agenti: «Ogni poliziotto presente ha iniziato a prendermi a calci e pugni. Per 150 metri, fino al bus della polizia, tutti mi hanno picchiato, maledetto, insultato. Non finivano mai».
I ragazzi con la divisa a Besiktas hanno facce stanche e impaurite. Se gli chiedi una dichiarazione ti dicono: «Non siamo autorizzati a parlare». Uno di loro, però, ha vuotato il sacco sul quotidiano Radikal: «Tutti ci insultano per quello che abbiamo fatto — ha detto M.E.A. — ma dovrebbero prendersela con quelli che hanno deciso. Noi non possiamo disobbedire, pena l’esilio nell’est o la mobbizzazione perpetua». Il giovane, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha raccontato lo stato d’animo di chi ha usato gas lacrimogeni ed idranti: «Il nostro unico desiderio era andare a casa a dormire. Abbiamo vissuto in condizioni indescrivibili, senza poter nemmeno andare in bagno. Io puzzavo, mi sentivo un mostro». M.E.A., che è in polizia da cinque anni, conosce i colleghi che si sono suicidati: «Siamo stati sottoposti a una vera e propria tortura — racconta —. Uno dei miei amici si è visto in televisione mentre riempiva di calci una ragazza e si è vergognato di se stesso. Ha pensato: “Dio mio come posso averlo fatto?”. La verità è che non eravamo in grado di pensare».
Una versione confermata in pieno da Faruk Sezer, capo del sindacato della polizia Emniyet-Sen: «La violenza che vedete è il riflesso della violenza cui sono stati sottoposti i poliziotti — ha detto all’Hurriyet — questi ragazzi hanno lavorato per 120 ore di seguito, mangiando pane raffermo e non dormendo mai». In piazza, però, c’è chi non perdona. Arzu, una ragazza curda, dice: «Ora tutti i turchi hanno capito cosa fa la polizia, noi queste cose le abbiamo subite per anni». Nel centro di Ankara gli agenti sono tornati a sparare candelotti lacrimogeni e ad usare cannoni ad acqua. A Istanbul la sera scende a Taksim ma le tende sono ancora vuote, i ragazzi festeggiano l’occupazione e piantano fiori al posto degli alberi distrutti dalle ruspe. Aspettando le mosse del premier, soprannominato «Erdogas».
Monica Ricci Sargentini


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