Quei 40-50 jihadisti partiti per la Siria dalle città italiane

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GENOVA — Mohammed sapeva che sarebbe finita così. Lo aveva anche avvisato, gli aveva detto che doveva trovare un’altra strada dove immettere la sua rabbia. «Voi italiani, esagerate sempre. Alla fine siamo stati costretti a metterli fuori, gli italiani. In questo posto noi preghiamo, insegniamo l’arabo ai bambini, e cerchiamo di evitare il fanatismo».
Il centro preghiera di Vico Amandorla sembra un garage. Una delle dieci piccole moschee di Genova, nel cuore dei carrugi che di giorno sono un paesino dove tutti si conoscono e alla notte si travestono da movida. Sorride, Mohammed. «C’era qualcosa che non andava, in quel ragazzo e nei suoi amici. Adesso sembra crudele dirlo, ma l’Islam c’entrava poco». È sera. Dai vicoli arrivano dei bambini di corsa. Al responsabile di quello che figura come istituto culturale dispiace, e molto. Era stato lui a decidere l’allontanamento degli italiani. Noi siamo ortodossi, gli aveva detto, ma il fanatismo non ci interessa. Quindi fuori, per favore. Gli italiani erano finiti a pregare da soli, in un bugigattolo stipato con attrezzi da carpentiere.
Non solo lui. Ce ne sono altri, come Giuliano Ibrahim Delnevo, che aveva appena 23 anni, era nato e cresciuto al secondo piano di una casa all’inizio di via San Bernardo, l’anima della città vecchia, ed è morto a Qusayr, combattendo per le milizie che si battono contro il regime siriano, come rivelato ieri da Il Giornale. L’Italia non è la principale base europea per i volontari che decidono di arruolarsi nelle milizia antigovernative. «Non ci risulta nessuna ondata» ha detto ieri il ministro degli Esteri Emma Bonino. Anche se è ben difficile fare stime precise, la rete europea della resistenza ha arruolato circa 800 combattenti stranieri. Gli attivisti pro-ribelli che vivono nel nostro Paese ritengono che i volontari partiti da qui siano al massimo 40-50, un plotone del quale fanno parte sopratutto i cittadini siriani residenti nelle grandi città.
E solo pochi italiani, a quanto sembra. Giuliano Ibrahim era uno di quelli. Il suo nome era da tempo iscritto nel registro degli indagati della procura di Genova, insieme a un altro musulmano italiano e tre cittadini del Maghreb che vivono nella provincia. Arruolamento e addestramento al terrorismo internazionale, una specie di rete della Jihaad fai da te intrecciata a quella di Anas El Abboubi, un blogger marocchino che aveva fondato la «filiale» italiana di un movimento estremista, Sharia4, arrestato pochi mesi fa dai magistrati bresciani.
Ma quella del ragazzo che su Facebook teorizzava la nascita del Liguristan, e non stava scherzando, è anche una storia umana dolorosa, che sembra mischiare radicalismo e alienazione in parti uguali. Il padre Carlo se ne andò ben presto, portando con sé il fratello maggiore di Giuliano. Lui rimase con la madre Eva, e negli anni la convivenza divenne difficile. Correvano voci, sul loro conto. Urla, botte. Maltrattamenti inflitti al figlio, che in seguito, crescendo, avrebbe ripagato la madre con la stessa moneta.
Adesso la palazzina di via San Bernardo è diventata un ritrovo di studenti universitari, che affittano gli appartamenti dall’inizio alla fine dell’anno accademico. «Ogni volta che si faceva vedere c’era casino» raccontano i due ragazzi greci che vivono al piano di sotto. Quando una persona muore, la gara al ricordo di chi sostiene di averlo conosciuto può condurre in qualunque direzione. Attraverso le mura, gli studenti greci apprendevano dei drammi domestici in corso. La gelataia ricorda Giuliano che la rimprovera per aver varato una linea innovativa di gusti a base di alcool. Il marito sostiene invece che si trattò di un rimbrotto bonario, da parte di un ragazzo timido e riservato che dal 2008, appena diventato adulto, aveva cominciato a vestirsi come un Sufi, con lunga tunica bianca e il kizil bas, il cappello a cono.
Lo avevano notato a qualche iniziativa di Forza Nuova, al seguito del suo amico Umar Andrea Lazzaro, un ex punk della Valbisagno convertito all’Islam, titolare di un Forum non proprio moderato. «Non volevamo seguire la massa, cercavamo un legame con il trascendente che andasse oltre il nostro produci-consuma-crepa». Qualcuno sostiene che Giuliano fosse andato in Cecenia, e ne fosse ritornato sconvolto, incattivito. Quando fece la sua scelta definitiva, rimase solo. La Siria era qualcosa di ben diverso dalle manifestazioni a favore della costruzione della nuova moschea nella zona del Lagaccio. Nel dicembre 2012 si confida con Alfredo Maiolese, uno dei personaggi più conosciuti dell’Islam genovese. «Mi raccontò di essere appena tornato dal confine turco-siriano. Era stato in due campi profughi, ma non aveva trovato il contatto giusto, e non era riuscito a entrare. Si lamentava di non trovare lavoro qui in Italia, diceva che i suoi studi erano inutili. Aveva una luce strana negli occhi. Gli dissi di calmarsi, l’Islam significa soccorrere, e non sparare. Mi rispose che si doveva solo organizzare meglio, la prossima volta sarebbe stata quella buona. Non l’ho mai più rivisto».
Marco Imarisio


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