Meno abbienti penalizzati, ricchi indenni il paradosso del rincaro Iva colpirebbe così

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Roma — Una perdita di 170 euro l’anno anche per chi ha un reddito esiguo di appena 7 mila euro. Il rischio che l’aumento dell’Iva, ormai alle porte, si scarichi ancora una volta sulle famiglie che arrancano è sempre più concreto. Se il governo non riuscirà a sterilizzare il rialzo dell’aliquota dal 21 al 22%, il nono in quarant’anni di vita dell’imposta sui consumi, previsto per lunedì prossimo, a pagarne gli effetti più devastanti saranno proprio i ceti in difficoltà. Il Cer -Centro europa ricerche calcola che accadrà qualcosa di simile a quanto successo nell’autunno del 2011, quando l’Iva salì dal 20 al 21% e il contraccolpo si distribuì sul terzo dei nuclei che ha meno denari, con un ammanco massimo di quasi l’1,8% per il 10% dei più poveri.
D’altronde — spiega sempre il Cer in uno studio messo a punto con la Confcommercio — l’ipotesi di scambio Irpef-Iva su cui si è arroventato il dibattito a fine 2012 non è una strada percorribile ora dal governo. Aumentare l’Irpef (togliendo alcune agevolazioni) per evitare il rincaro Iva, come dimostra il grafico in pagina, avrebbe un paradossale effetto. Ovvero perdita netta (tra 50 e 200 euro l’anno) per chi ha un reddito disponibile fino a 20 mila euro e addirittura soldi in tasca (190 euro in più) per il 10% dei più ricchi. La strada da trovare deve essere un’altra.
Un punto è inequivocabile, scrive il Cer. L’Iva ha «marcati effetti regressivi», ovvero «colpisce in misura maggiore i percettori di redditi più bassi e gli incapienti », mentre è altamente tollerata da chi non ha problemi economici, su cui incide con meno forza. Al punto tale che l’aumento della sola aliquota ordinaria (quella del 21 che passerà tra una settimana al 22%) provocherà un abbattimento del reddito disponibile (ciò che rimane dopo aver pagato le tasse) di quelle famiglie già vessate da una crisi che non molla.
Le conclusioni del Cer sono confermate anche da altri studi. Daniele Pacifico, giovane economista, scrive ad esempio su lavoce.info che in effetti «un incremento dell’Iva ordinaria produrrebbe un aggravio della tassazione sicuramente più elevato per le famiglie più abbienti», perché spendono di più. Tuttavia se parliamo di equità e dunque del “peso” di un aumento Iva dal 21 al 22% sul reddito a disposizione non vi è dubbio alcuno che «l’Iva è un’imposta tanto più regressiva quanto più stringenti diventano i vincoli di liquidità delle famiglie, ovvero per quelle più bisognose ma anche per larga parte del ceto medio».
Un conto è misurare l’impatto dell’Iva sulla spesa, spiegano gli economisti. Un altro conto parametrarlo al reddito. Difatti chi consuma di più, versa di più. In questo senso, l’imposta è progressiva, come dimostra il recente lavoro di Francesco Daveri, sempre su lavoce.info.
«Il primo quinto di reddito destina circa il 38% della propria spesa alle categorie di beni e servizi colpite dall’Iva ridotta, al 4 o 10%. Mentre le famiglie più ricche spendono il 40% del loro paniere in beni e servizi con l’Iva al 21%». Come auto, borse, valige, gioielli, mobili, parcelle di avvocati o commercialisti. Ma se invece misuriamo l’Iva rispetto al reddito è chiaro l’emergere della sua forte regressività: se aumenta l’aliquota, questa colpisce tutti, indipendentemente dal reddito e pesa dunque di più su chi ha di meno. Senza dimenticare che tra i beni tassati al 21% c’è il vino, le scarpe, l’abbigliamento, il cellulare, i giocattoli, i detersivi, i tovaglioli. Ma soprattutto la benzina.


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