l manager americano ostaggio dei suoi operai “Ci paga troppo poco perché siamo cinesi”

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Multinazionali straniere in fuga verso mercati ancora più competitivi, lavoratori dell’Oriente convertiti al sindacalismo occidentale, imprenditori di Europa e Usa più poveri dei businessman post-rivoluzionari e leader comunisti impegnati, per una volta, a sostenere chi osa ribellarsi: un mix esplosivo e senza precedenti, che minaccia di destabilizzare il sistema capace di generare la crescita più sostenuta degli ultimi trent’anni.
Protagonista dell’ultimo caso, curiosamente concomitante con lo scontro Cina-Usa dopo la fuga di Edward Snowden da Hong Kong, è
Starnes Chip, 42 anni, co-proprietario della “Specialty Medical Supplies”, azienda di forniture sanitarie usa e getta con sede a Coral Springs, in Florida. L’uomo d’affari è prigioniero da cinque giorni dei lavoratori che lavorano per lui da quasi dieci anni. La prigione è il suo ufficio, al secondo piano di uno dei due capannoni occupati dall’azienda nel distretto di Hairou, alla periferia di Pechino. Gli operai lo accusano di voler chiudere la fabbrica per trasferirla a Mumbai, in India, e di cercare di non pagare il trattamento di fine rapporto ai dipendenti. Chip è stato sequestrato da un’ottantina di persone, dopo che aveva versato la liquidazione a trenta operai licenziati dal settoreplastica, chiuso e ri-delocalizzato nel Sudest asiatico. I suoi “carcerieri” non hanno perso il lavoro, ma pretendono la buonuscita anticipata, temendo di non riuscire a recuperare il credito in caso di chiusura improvvisa dell’intera azienda. «Mi sento come un animale in trappola — ha gridato il manager Usa aggrappato alle sbarre della finestra dell’ufficio — è quanto accade è disumano. A partire dal comportamento del governo cinese».
L’azienda Usa sostiene che Chip è bloccato in ufficio, che le uscite dell’impresa sono state bloccate e che gli operai impediscono al manager di dormire, tenendo le luci accese e colpendo le finestre con pali di ferro. Sul posto è intervenuta la polizia della capitale, ma quattro agenti e una dozzina di funzionari in borghese si sono limitati a impedire ai media stranieri di parlare con i contendenti. «C’è una normale controversia di lavoro in corso — ha detto Zhao Lu, portavoce dell’ufficio di pubblica sicurezza — nessuno vuole fare del male al cittadino americano, ma solo costringerlo a pagare».
Starnes Chip era rientrato a Pechino la scorsa settimana, con il compito di avviare il trasferimento in India. Una normale dismissione aziendale si è però trasformata in un caso diplomatico, con i media di Stato scatenati nel porre sotto accusa «l’opportunismo occidentale, che dopo aver succhiato il succo cinese pensa di poter buttare il frutto nei rifiuti». Risposta indiretta alla vicenda Snowden, espressione dell’alta tensione Cina-Usa, ma soprattutto segnale della montante xenofobia scatenata dalla fuga delle imprese straniere verso Paesi dove il costo del lavoro è ancora più basso. Malanni della globalizzazione: ma ad alimentarli, questa volta, scende in campo la stessa leadership di Pechino, insediata nel nome del riformismo capitalista.


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