Ambizioni (e timori) del piccolo Ecuador che sfida il mondo

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La domanda che sorge è una sola: perché? Quale molla potrebbe spingere un’altra volta il presidente Rafael Correa a mettersi contro la più grande potenza del pianeta, e per una questione, a suo modo di vedere, di puro principio?

Ecuador, capitale Quito, 15 milioni di abitanti, e sarebbero molti di più se a cavallo del nuovo millennio il Paese andino non si fosse spopolato: fu un esodo biblico verso Stati Uniti, Spagna, Italia. Epoca di convulsioni politiche, un presidente all’anno, debito estero e inflazione a due cifre, miseria diffusa. Poi arrivò Correa e le cose iniziarono a cambiare. La prima elezione è nel 2006, con parole d’ordine alla Hugo Chávez, del quale diventa amico e alleato. Sfida e batte Alvaro Noboa, simbolo di vecchie oligarchie, lo chiamano il re delle banane. Correa non è un militare, né un sindacalista ma ha studiato economia, anche all’estero, è professore universitario. È giovane, imponente, piace alle donne. Populista più a parole che nei fatti, almeno in economia, e non fa stupidaggini. Nazionalista, ma senza far scappare gli stranieri. Se Chávez tuonava contro il nemico yanqui vendendogli comunque un mare di petrolio, Correa ne usa addirittura la moneta. In Ecuador esiste solo il dollaro americano, frutto di una riforma monetaria lanciata prima dell’arrivo di Correa ma da lui lasciata in piedi. A malincuore, perché ha funzionato.

Correa cambia anche lui la Costituzione (dopo l’ultima elezione, la terza, governerà fino al 2017) e rilancia l’economia. La fuga all’estero degli ecuadoriani si arresta. Ma c’è qualcosa che non riuscirà mai a mandar giù, cosa che lo condanna all’attenzione mondiale: la libera stampa. Fa chiudere giornali, ottiene multe e risarcimenti pesantissimi con l’aiuto di una giustizia compiacente. È di poche settimane fa la definitiva approvazione, dopo tre anni di battaglia, di una legge considerata bavaglio. L’informazione da diritto diventa bene pubblico, c’è un garante nominato dal leader. Piovono condanne, lui si difende sostenendo che è solo un tentativo di rompere l’egemonia, la concentrazione dei media in mani private e reazionarie.

Ecco, forse è qui che occorre cercare per capire di più sulla strana sfida. Correa è ambizioso e, si dice, con una elevata dose di narcisismo. Scomparso Chávez, con i Castro ultraottantenni, può ambire alla guida solitaria della sinistra radicale latinoamericana. La quale per principio, e spesso senza un vero perché, ha al primo articolo del suo statuto il confronto con gli Stati Uniti. Ce l’aveva ai tempi di Reagan e continua anche adesso che il mondo è un altro. Altra curiosità: per clima, sicurezza, costo della vita l’Ecuador sta diventando la meta preferita dai pensionati americani. Per venirci a vivere, non solo per turismo.

Le critiche feroci da tutto il mondo sulla libertà di stampa in Ecuador sono un nervo scoperto per Correa. Le ritiene inammissibili. Nel discorso inaugurale del suo terzo mandato ha sostenuto di essere sottoposto ad un «linciaggio mediatico». Per quello che fa come presidente, e poi per le sue reazioni contro quel che la stampa dice di lui. Il caso Julian Assange di WikiLeaks, con la sua crociata per la trasparenza, contro i poteri forti e gli omissis, parve a Correa un buon motivo per rispondere a tutti: ecco cos’è per me la libertà di espressione, disse. Ma tra l’asilo in una ambasciata lontana e una protezione in casa ce ne passa. Quel «valuteremo in modo molto responsabile» di Correa sulla richiesta di Snowden è già un passo indietro? Segno che il gioco si è fatto troppo pesante?

Rocco Cotroneo


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