Eternit, ora la Svizzera La battaglia continua

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CASALE MONFERRATO (AL). Sono in un angolo di piazza Castello, davanti alla sede dell’Associazione dei familiari delle vittime dell’amianto, a Casale Monferrato. Cammino con Luca, nipote di un lavoratore Eternit morto per l’asbestosi: «Mio nonno era uno duro, non si fermava mai nonostante la tosse», dice, «leggeva la Gazzetta dello Sport, che teneva nascosta dentro l’Unità, per non sembrare uno che spreca il tempo…». Ci taglia la strada un pensionato in bicicletta con un fascio di volantini che annunciano la convocazione di un’assemblea, che si è svolta ieri pomeriggio, per fare il punto nei locali dell’ex-Dopolavoro Eternit. Il vecchio operaio ha una voce flebile, è minuto, pedala stando in piedi, senza sedersi sul seggiolino. «Come sto? Meglio, dicono che si è un po’ ridotto. Vediamo…». Il sottinteso è quello che un tempo chiamavano «il mal di Casale», il mesotelioma. Qui te ne parlano senza drammi: questi piemontesi son gente coriacea, che lotta fino all’ultimo respiro. «Com’è andata ieri?», «No, non c’era il mio nome». È anche lui uno dei tanti rimasti fuori dalla sentenza d’appello del processo Eternit. La morte del belga De Cartier e la riduzione del periodo di responsabilità dello svizzero Schmidheiny li hanno lasciati senza una riparazione economica. «Ma io avevo provato con lo stress». Si era cioè dichiarato parte offesa senza essere ammalato, denunciando un danno psicologico per la paura, per ogni dolore alla schiena al risveglio, per l’ansia di fare le lastre a ogni colpo di tosse. Non gli hanno riconosciuto lo stress ma adesso si è ammalato anche lui: altro che rischio statistico. Intanto arrivano alcuni francesi, chiedono dov’è la conferenza stampa: lui salta sui pedali e fa segno di seguirlo, poi si infila nel mercato coi volantini che gli escono di tasca, quasi impennando la ruota anteriore. I francesi arrancano dietro.
È una scena che le telecamere che lunedì scorso hanno occupato l’aula 1 del tribunale di Torino non hanno colto. Tante storie minute, volti anonimi che sostengono i locomotori della resistenza casalese: la signora Romana, di cui un giornale scambia un gesto di rabbia con un preteso malore; Nicola Pondrano, che sfidò l’Eternit incollando i fogli mortuari dei dipendenti sui muri dello stabilimento, e Bruno Pesce, che gesticola come in un film muto di Ejzenstejn tagliando lo spazio con mani e occhi magnetici. Le telecamere raccontano il processo, ma non sentono lo sbigottimento dei primi due minuti, quando il presidente ripete le formule «assolve» e «il fatto non sussiste». I pugni si stringono, qualcuno mormora, ci si guarda sconvolti. Poi arriva la parola «colpevole», «18 anni» («più del primo grado», mormorano), e soprattutto una formula importante: «con dolo». Dopo comincia una lista di nomi, interminabile, come il danno provocato a Casale. Nomi di vivi, segnati dalla perdita dei familiari, poi i nomi dei morti. Un genocidio. Un uomo scandisce ogni nome con un martello immaginario che simula di impugnare, percuotendo l’aria. Fuori si accavallano i commenti. Ascolto Pondrano e realizzo che alcune cose vanno bene, altre non tornano. Poi mi rivolgo a Pesce e mi rendo conto che sta già iniziando la mobilitazione per sistemare anche quelle cose che non vanno. La lotta continua: c’è da far pagare i ricchi, non sarà facile. Ci vorranno traduzioni giurate, soldi, c’è un sistema svizzero che è fatto proprio per non farli pagare, i padroni. Con arroganza sembrano dire: «venite a prenderveli, questi soldi, se siete capaci». Verranno. Sono sicuro. Quelli di Casale arriveranno in Svizzera, arriveranno anche in Costarica, dove «lo svizzero» risiede spesso. Camminano da decenni e non si sono mai fermati. La seduta è tolta, la gente esce, i giornalisti continuano a intervistare, la Romana parla, si appoggia e racconta la sua rabbia. Ripartiamo verso Casale, c’è chi esce cantando dal tribunale. I volti hanno la forza dei vitigni del Monferrato. Nel pulman abbondano i ricordi lavorativi. Un signore dichiara con entusiasmo di aver rinunciato a una carriera ecclesiastica «immensa» per fare il ferroviere. Adesso è in pensione ma non dimentica gli anni di formazione in seminario, dove ha fatto anche falegnameria. «Più che mobili facevamo bare», e vorrebbe quasi prendermi le misure. Lacrime e risate. Intanto sfiliamo come in Convoy di Peckinpah, un pulman dopo l’altro: ci mettiamo alle spalle i capannoni industriali di Torino ormai abbandonati e con i vetri rotti, ci infiliamo in una striscia d’asfalto circondata dall’acqua delle risaie che riflette il cielo. «Quella era una centrale nucleare – mi dicono – là ci sono le scorie radioattive». «Quello è un cementificio, è pieno d’amianto, guarda».
Troviamo a Casale tante bandiere tese dalle finestre: il tricolore con sovrimpresso la scritta Eternit Giustizia. In piazza ci organizziamo per incontrarci a cena. I gruppi si dividono in tante tavolate. Scorrono i vini del Monferrato, le risate si alternano ai ricordi più tristi. Mi raccontano di un pizzaiolo che mai ha lavorato all’Eternit, emigrato dal meridione, che poi è «mancato» per il solito male, perché anche i comignoli dei forni a legna erano in eternit. Ricordi di bombole d’ossigeno e respiri affannosi. Poi torna l’umore, si riempiono i bicchieri.
Il giorno dopo, il 4 giugno, alla conferenza stampa c’è l’internazionale della resistenza contro il minerale assassino. Francesi, belgi, spagnoli e latinoamericani, tutti lavoratori esposti all’amianto, firmano un documento congiunto. Pondrano riveste le cifre della forza della vita: statistiche piene d’amarezza. Ma ora bisogna andare avanti, evitare guerre tra poveri, rilanciare con il processo civile e l’eternit bis. Ricominciano le interviste, le mani si cercano, ci si saluta, forse si parte. Ma poi il gruppo si ricompone, un’ultima pizza dal «pizzaiolo solidale». Il pizzaiolo è uno giovane, arrivato come tanti dal meridione. Non ha mai visto l’Eternit in funzione eppure il lunedì, quando la pizzeria è chiusa, è andato a presenziare a tutte le udienze del processo. Mangiamo, la signora Romana è proprio davanti a me. Si confabula, in tante lingue. Si commenta la dichiarazione dell’avvocato dello «svizzero». Dice che dopo questa sentenza gli imprenditori stranieri non investiranno più in Italia. Ma se per lavorare devono poi ammazzarti… meglio così. Ci si risaluta, stavolta davvero. Mi avvio verso l’auto. In lontananza continuo a sentire l’eco di Pesce che organizza l’assemblea di venerdì parlando dentro al telefonino in vivavoce. Parto col rammarico di aver dimenticato di salutare il pizzaiolo. Ma intanto, dopo pranzo, Casale è vuota. Intravedo solo un uomo mingherlino in bicicletta, con un mazzo di volantini che escono dalla tasca: spinge sui pedali in piedi e ogni tanto dà un colpo di tosse.
* Scrittore e traduttore è l’autore del libro-inchiesta «Amianto» (ed. Agenzia X)


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