Hong Kong, perse le tracce della talpa Il rebus cinese: estradizione o asilo?

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È Snowden che ha rivelato di essere stato qui vicino per venti giorni, da quando il 20 maggio ha lasciato l’ufficio alle Hawaii, ha comprato un biglietto di sola andata ed è sbarcato nell’ex colonia britannica. Lo ha detto al Guardian, il giornale inglese che ha fatto esplodere lo scandalo di Prism, il gigantesco programma di ascolto telefonico e intercettazioni di comunicazioni via Internet in nome della sicurezza nazionale Usa.
«C’è la stazione Cia di Hong Kong in fondo alla strada, nel palazzo del consolato», ha detto la Gola Profonda ai giornalisti del Guardian che sono diventati i suoi compagni in questa impresa ad alto rischio.
L’intervista ha aperto la caccia. Hong Kong è la patria delle informazioni e della libera stampa, da qui passa buona parte delle notizie «sensibili» censurate in Cina. Dopo che Snowden ha rivelato di essere in città non è stato difficile individuare il suo nascondiglio, il Mira Hotel affacciato sul fronte del porto di Kowloon: ma se n’era appena andato, check-out a mezzogiorno. E la caccia è ripresa. Non solo da parte dei giornalisti, c’è da esserne sicuri.
Ma che cosa ha spinto Edward Snowden a venire allo scoperto, a far vedere a tutti il suo volto (l’intervista al Guardian è stata filmata e messa nel sito web del quotidiano)? «Non ho fatto niente di male, so che non vedrò mai più casa mia, ma non voglio vivere in una società che fa cose del genere», ha detto il fuggiasco. Snowden non è uno sprovveduto: ha lavorato almeno sei anni per la Cia e poi per la Nsa. Se ha voluto far sapere dove si nascondeva a Hong Kong lo ha fatto a ragion veduta: probabilmente dopo tre settimane sentiva che i cacciatori di teste dell’intelligence lo avevano individuato.
Non ha intenzione di arrendersi questo ragazzo che si sta comportando come Robert Redford nei Tre Giorni del Condor, sfidando i più potenti servizi segreti del mondo. «La gente di Hong Kong ha una lunga tradizione di libertà di parola», ha detto prima di scomparire di nuovo. È chiaro che a questo punto la polizia della città sa dove si trova. Anche perché per Snowden ieri è cominciata una complicata partita legale per evitare l’estradizione negli Stati Uniti.
L’ex colonia britannica ha un trattato di estradizione con gli Usa, firmato nel 1997, alla vigilia del ritorno alla madrepatria sotto la formula «un Paese, due sistemi». Snowden potrebbe averla scelta quando è fuggito dalle Hawaii perché il territorio speciale concede agli americani 90 giorni di permanenza senza formalità, basta presentare il passaporto all’aeroporto.
Ma Hong Kong non può garantire l’asilo, Snowden lo sa e dice di voler andare in un Paese che «condivida i suoi valori, come l’Islanda». Da Pechino ieri l’ambasciatore islandese ha risposto che per valutare la richiesta il soggetto deve presentarsi di persona e questa condizione sembra difficile da realizzare.
Patricia Ho, funzionario dell’immigrazione di Hong Kong e avvocato dello studio Barnes & Daly specializzato in diritti umani, dice che l’ex agente potrebbe invocare lo status di rifugiato «in base alla “procedura Cidtp” contro tortura, trattamenti crudeli, disumani o degradanti in caso di estradizione negli Usa». E con il precedente del soldato Manning di Wikileaks, Snowden potrebbe farcela, conclude l’avvocato Ho. Manning, l’informatore di Assange il cui processo è cominciato la settimana scorsa, è stato tenuto per molti mesi in isolamento, costretto a restare nudo la notte in cella, controllato ogni cinque minuti.
«Diranno che ho infranto la legge anti-spionaggio e che ho aiutato i nemici dell’America», ha detto Snowden. Il Dipartimento della Giustizia Usa ha aperto un’inchiesta criminale e i repubblicani al Senato hanno già invocato l’estradizione. Nella questione, nonostante l’autonomia di Hong Kong, è coinvolta la Cina. Bob Baer, famoso ex agente della Cia, dice che dietro il Datagate ora si vede la mano dei servizi segreti cinesi. Una clausola nel trattato tra Hong Kong e gli Usa dà a Pechino il potere di veto sulle estradizioni. «Immaginate se i cinesi decidessero per l’asilo — dice al South China Morning Post un diplomatico europeo sotto condizione di restare anonimo — un caso di diritti umani nel quale la Cina soccorre un americano, sarebbe un colpo da maestri per la propaganda di Pechino».
Mentre in città si apre la battaglia legale, nel palazzo di Garden Road dove diplomatici e agenti della Cia si dividono le stanze, le luci ieri notte erano accese, qualcuno si sta chiedendo che cosa ci sia ancora nella memoria del computer di Edward Snowden.
Guido Santevecchi


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