Il desiderio e l’ascesi principi del mondo secondo il dio Siva

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Secondo quello che è l’insegnamento centrale del Tantrismo, scrive Raffaele Torella nella bella ed esaustiva prefazione agli Siva sutra, Gli aforismi di Siva (Adelphi) «il progresso spirituale non è più visto come un cammino di negazione e di rinuncia, ma come una coltivazione e intensificazione — fino al parossismo e alla trasgressione — di tutte le linee di energia che animano l’esistenza ordinaria e, in primo luogo, la persona individuale, anche nella sua fisicità e nelle sue pulsazioni».
Siva — racconta ancora Torella — è un dio che viene da lontano, ama i luoghi inaccessibili, e la notte. Egli è pura energia. Una energia talmente dirompente che, dilagando, può anche distruggere. Siva, infatti, è Creatore e Distruttore: insieme. Così come — in una unione degli opposti inestricabile — è asceta e animato da un inestinguibile desiderio sessuale, rappresentato dal lingam, il fallo eretto. L’ascesi (tapas) di Siva, dalla quale mai vorrebbe essere distolto, può durare anche migliaia di anni, nella solitudine più completa. Parvati, la figlia dell’Himalaya, solo con grandi sforzi e tentazioni riesce a distoglierlo e a unirsi a lui in matrimonio. Allora, la potenza sessuale che il dio manifesta è tale che può travolgere l’universo, e far sì che l’universo sia solo kama, desiderio. Al punto che, con il suo terzo occhio, Siva (per tornare all’austera ascesi di cui sente la nostalgia) incenerisce il desiderio; oscurando in tal modo il mondo. Sarà Parvati, di nuovo — secondo una leggenda trasferita in una quantità di leggende che le assomigliano, e valgono per altri esseri mitologici e umani — a resuscitare la voglia di congiungersi.
L’adepto, colui che insegue Siva, vivendo in se stesso questa contrapposizione degli estremi — l’ascesi più pura, il desiderio più travolgente e violento — si trasformerà in Siva. Si identificherà in Siva. E lo adorerà: solo in quel momento. Ma come, l’adepto, può arrivare a questa identificazione? Gli Agama, le scritture divine, dicono: con il rito, la conoscenza, lo yoga e la condotta. Rito e conoscenza, vale a dire: fare e pensare, si rispecchiano, e continuamente si rincorrono. Una parte non può fare a meno dell’altra. Tuttavia — e questa è davvero la sublimità dell’induismo, mai capita quanto sarebbe necessario dalla mentalità occidentale — l’agire, il fare, è più importante del pensare. Esistono dei livelli dell’essere ai quali nessun tipo di pensiero, anche il più spericolato, ha accesso. A quei livelli, a quella sostanza, si accede solamente attraverso la prassi. E la prassi è il rito.
Si narra che Gli aforismi di Siva furono trovati incisi in una roccia del Kashmir (che ancora viene mostrata al visitatore) da un asceta di nome Vasugupta, vissuto fra la fine dell’VIII e il principio del IX secolo dopo Cristo. Negli Aforismi — che risulterebbero impenetrabili senza il commento di Ksemaraja, un altro saggio asceta vissuto un paio di secoli più tardi in quella stessa regione fiorente di scuole e templi in cui convenivano yogi da tutta l’India — è indicato qual è il tracciato necessario a identificarsi con la Realtà Suprema, e cioè Siva.
Dunque. La Realtà Suprema non è altro che coscienza. Però, non una coscienza ferma. È una coscienza (spanda) che ha in se stessa una inesauribile vibrazione. Questa vibrazione si propaga al mondo: all’apparire. Che è illusione, sogno, dal momento che non esiste altro che come coscienza. Con un procedimento che ricorda molto quello che spiegano i testi cabbalisti, Siva, il Dio, si contrae, si macchia, e in quel modo conosce se stesso riflettendosi nell’universo. L’adepto che vuole diventare Siva, e percorre l’itinerario che consiste nel rito, nella conoscenza, nello yoga e nella condotta, sentirà a un tratto dischiudere se stesso. Sentirà che i suoi limiti bruciano e si annullano come il fuoco. E lui, liberandosi dalla dolorosa trasmigrazione, diventa coscienza pura.
La letteratura religiosa dell’India antica è principalmente una letteratura «di commento». Anche la parola, dicono i saggi indiani con grandissima parte di verità, è un limite. È uno dei limiti che meglio descrivono la nostra prigione. Va detto, però, che lo sforzo estremo compiuto dagli esegeti per penetrare nell’ineffabile, ed esplicarlo in qualche modo, può raggiungere vette di bellezza e di intensità straordinarie. Come nei commenti di Ksemaraja. Valga, per tutti, il commento al sutra numero dodici, che recita: «Gli stati dello yoga sono stupore». Questo, il commento di Ksemaraja: «Come uno che vede una cosa fuori dell’ordinario prova un senso di stupore, così il sentimento dello stupore, nel godere intensamente del contatto con le varie manifestazioni della realtà conoscibile, continuamente si produce in questo grande yogi con tutta intera la ruota dei sensi, sempre più dispiegata, immota, pienamente dischiusa, in forza della penetrazione nella sua più intima natura, unità compatta di coscienza e meraviglia sempre nuova, estrema e straordinaria. È uno sgorgare continuo di sbalordimento, sempre più intenso in quanto mai è saziato…».
Lo stesso sbalordimento che il viaggiatore prova nel piccolo museo di Tanjavur (Tamil Nadu), di fronte ai meravigliosi bronzi estatici del Dio creatore, distruttore, danzatore, mendicante, di epoca medievale.


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