Il fascino indiscreto di Pechino

by Sergio Segio | 29 Giugno 2013 23:00

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Per quanto divertente — molto divertente — difficilmente sarà Bollywood il soft power del mondo futuro. Shahrukh Kahn è un divo globale, ma di sicuro non riuscirà a imporre uno stile come fece Cary Grant. Attenzione, però: un ruolo gli indiani lo hanno (speriamo). La questione è quella delle nuove potenze, dei cosiddetti Brics. Soprattutto della Cina che sfida gli Stati Uniti.
A inizio giugno, il presidente Xi Jinping è andato in California per dire a Barack Obama che d’ora in poi Pechino vuole sedersi su una sedia alta quanto quella americana, quando si viene agli affari internazionali. È una svolta: il padre del successo economico cinese, Deng Xiaoping, aveva raccomandato che i suoi successori tenessero un atteggiamento umile sul palcoscenico mondiale, che lavorassero sodo ma ricordassero sempre a tutti che la Cina è un Paese in via di sviluppo, non una grande potenza minacciosa. La nuova leadership di Pechino pare aver deciso che quella tattica è obsoleta, che serve un riconoscimento: entro fine decennio la Cina sarà la più grande economia del pianeta, non può sempre camminare rasente i muri, prima o poi deve prendere il centro della scena. C’è però un problema che i leader cinesi hanno ben presente: mancano di soft power.
Il presidente Xi e il primo ministro Li Keqiang hanno gli occhi puntati sull’America. Sanno che, oltre al potere militare ed economico, a fare la superpotenza che ha dominato il XX secolo sono stati una cultura e uno stile di vita che hanno conquistato gran parte del mondo, un soft power che ha avuto un ruolo enorme persino nella caduta del comunismo: Hollywood, la musica rock, la letteratura, la grande stampa, la libertà su un chopper, la democrazia, la ricerca della felicità e del successo, le grandi università, l’assenza di limiti alle ambizioni, la Coca-Cola e i jeans. L’American Dream. Infatti, Xi parla oggi di «Sogno cinese». E, già nel 2007, l’allora presidente Hu Jintao disse al XVII Congresso del Partito comunista che la Cina avrebbe dovuto incrementare il suo soft power.
Il politologo di Harvard Joseph Nye, che nel 1990 ha inventato il concetto che ha poi conquistato il dibattito delle relazioni internazionali, sostiene che nella politica mondiale il soft power — la capacità di convincere e portare sulle proprie posizioni gli altri senza misure coercitive, l’abilità di conquistarli per via morbida — è assolutamente necessario. Una forza che ogni Paese dovrebbe possedere, a maggior ragione se vuole essere una potenza. Messaggio chiaro per i Brics — Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica: hanno qualcosa capace di affascinare il mondo?
Fino a qualche anno fa, pochi sostenevano che la Cina avrebbe potuto mettere in campo una capacità di attrazione soft, una cultura che potesse fare egemonia e conquistare altri Paesi. Non che Pechino non ci provi. È che lo fa in modo burocratico. Ha aperto quasi trecento Istituti Confucio nel mondo, l’anno scorso ha fondato l’Associazione per la diplomazia pubblica, ha organizzato l’Olimpiade a Pechino nel 2008 e l’Expo a Shanghai nel 2010, crea in continuazione nuove borse di studio per attrarre studenti, organizza manifestazioni artistiche e spettacoli in Asia, Africa e America Latina. Denaro non sempre speso bene: in più di un Paese, anzi, la Cina spaventa più che ammaliare. Ciò nonostante, il modello cinese qualche radice fuori dall’Impero di mezzo inizia a metterlo.
Nel giugno 2011, l’allora segretario di Stato americano Hillary Clinton fece un discorso in Zambia nel quale sostenne che un «nuovo colonialismo» minacciava l’Africa, quello cinese. Da allora, molte voci africane si sono levate per negarlo. L’economista capo della African Development Bank, Mthuli Ncube, ha sostenuto durante un Forum di Davos che la Cina è in realtà diventata un partner benefico per l’Africa. Un’altra economista, Dambisa Moyo, ha spiegato che gli investimenti di Pechino nel continente, soprattutto alla ricerca di materie prime, hanno in realtà spezzato il ciclo di dipendenza di molte economie dagli aiuti internazionali: le entrate dei donatori occidentali deresponsabilizzavano le classi dominanti, le quali le preferivano a un reale sviluppo in quanto permettevano loro di non cambiare le cose, di conservare il potere e di intascare parte degli aiuti sotto forma di corruzione. Non a caso — a suo parere — una serie di economie africane ha iniziato a crescere solo dopo che sono arrivati gli investimenti cinesi.
Non è ancora soft power, ma potrebbe esserne la base. Tutti i Brics — i grandi emergenti — hanno bisogno di offrire al mondo una loro narrazione, un’idea di se stessi per cooperare con gli altri. Si tratta di modelli diversi tra loro, spesso in contrasto, ma è il modello di crescita cinese il più forte e di successo: grandi investimenti, business prima di ogni cosa, controllo stretto da parte dello Stato, molta crescita. E, come si sa, niente ha più successo del successo: non ci saranno star di Hollywood e libertà di stampa, ma per molti Paesi poveri dell’Africa e forse anche dell’America Latina un modello fondato sull’autoritarismo efficiente, che crea benessere, può diventare attraente, da copiare: soft power.
Uno dei punti chiave della spiegazione che il professor Nye dà del soft power, infatti, è che esso non è necessariamente benevolo e positivo, come potrebbe pensare chi si limitasse a contrapporlo a un cattivo hard power fatto di rumori di sciabole, di minacce, di Prodotti nazionali lordi. «Hitler, Stalin e Mao — ha sostenuto in un suo libro sul futuro del potere — possedevano tutti una gran quantità di soft power agli occhi dei loro seguaci, ma questo non lo rese buono». Si tratta semplicemente di una forma di potere diversa da quella che tradizionalmente si è considerata nelle relazioni tra Stati e nello stabilire i rapporti di forza. Ma è sempre potere. Vero che la rivista «Monocle» nel novembre 2012 ha stilato una classifica del soft power globale, basata su 50 indici, nella quale appaiono solo Paesi democratici: ai primi tre posti Regno Unito, Usa e Germania (Italia quattordicesima). Ma è anche vero che altri sondaggi in Africa mettono la Cina al primo posto, davanti anche agli Stati Uniti, in termini di influenza positiva sul continente. L’idea che la via autoritaria cinese possa essere più efficiente di quella proposta dai Paesi occidentali e dagli altri Brics ha dunque la potenzialità di prendere piede, se Pechino riuscirà ad affermarsi anche pubblicamente come superpotenza globale che ha un modello vincente, secondo le intenzioni di Xi e Li.
Qua arriva Shahrukh Kahn. L’India, infatti, tra i Brics è quella che rappresenta la via anticinese all’uscita dalla povertà. Finora, nel confronto con il vicino del Nord ha mangiato la polvere: il sistema indiano — dicono a Pechino — è inefficiente perché democratico, dà retta a milioni di istanze invece di imporre alla popolazione un bene superiore che il partito conosce. Se New Delhi non saprà smentire questa teoria, Pechino avrà la strada aperta per presentarsi come il modello giusto per i Paesi emergenti. Ma se, in questo confronto/scontro tra le potenze di domani, l’India farà il miracolo, potrebbe esserci anche Bollywood nel futuro dei Brics.

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