IL NAUFRAGIO DI MARONI

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E cioè trasformarla in succursale nordista del berlusconismo, federando al suo interno il notabilato locale conservatore, restio ai vaniloqui sulla Padania ma desideroso di restare al potere, magari aggrappandosi a localismi di stampo bavarese o carinziano.
Doveva essere la terza metamorfosi di un movimento che in 25 anni non è riuscito a fare la sua rivoluzione, ma invece si era inserito con abilità nelle fragilità culturali di una destra illiberale vincente, traslocando a Roma la sua classe dirigente, identificandosi con quel malgoverno e replicandone gli scandali, fino a rendere impossibile disciogliere il vincolo di sudditanza da Berlusconi.
Un colpo di mano ideato da Bossi nel 2010, con la complicità di Tremonti, profittando del momento di massima debolezza del Cavaliere, aveva regalato al leghismo l’orgasmo di una Padania apparente: Zaia in Veneto e Cota in Piemonte al vertice di regioni in cui davvero l’elettorato di destra sceglieva Lega di fronte a un Pdl che andava in frantumi. Ma che di mera illusione ottica si trattasse, lo aveva già dimostrato, prima della disfatta di ieri, il paradosso Maroni: pur di coronare il sogno, e congiungere dal Pirellone lombardo i lembi di una ricca maxiregione, il segretario leghista si dichiarava pronto a rinunciare alla segreteria politica del suo movimento e a rinnovare il patto indecente con lo screditato Formigoni. Così, quello che in teoria avrebbe dovuto risaltare come il momento della massima forza leghista, rivelava platealmente il suo bluff. Maroni aveva dovuto umiliare pubblicamente Bossi e, con il fondatore, non colpiva solo il malcostume delle appropriazioni indebite di soldi pubblici, ma le stesse fondamenta indipendentiste. Ad agitarle delegava un giovane compiaciuto nelle ostentazioni xenofobe ma privo di radicamento significativo, Matteo Salvini. Ma a tutti era chiaro che il vero braccio destro di Maroni era Flavio Tosi, il sindaco di Verona che per primo aveva teorizzato la trasformazione del leghismo in federazione di liste civiche.
Paradosso nel paradosso, Flavio Tosi da ieri è il primo della lista degli sconfitti, avendo perso la roccaforte simbolica di Treviso, anche perché non ha saputo fare a meno di ricandidarvi una figura detestabile per la sua matrice reazionaria, fascistoide e razzista, per giunta prossimo a compiere 84 anni, di cui gli ultimi venti trascorsi come Federale di Treviso: Giancarlo Gentilini. Credo che l’Italia civile debba riconoscenza ai cittadini di Treviso che ci hanno liberato da una simile leadership che le recava oltraggio. Ma la sconfitta del Carroccio è generalizzata, senza guardare troppo alle singole candidature.
Maroni che aveva contravvenuto alla sua promessa di dimettersi da segretario del partito, una volta divenuto presidente della Regione Lombardia, e per questo aveva rinviato la scadenza congressuale all’estate 2014, ora non potrà ignorare le accuse di tradimento rivoltegli da Umberto Bossi con non casuale scelta di tempi. Bossi fino a ieri poteva apparire una figura patetica e isolata, ma ora è probabile che gli stessi governatori del Veneto (Zaia è in perenne contrasto con Tosi) e del Piemonte (Cota ha rapporti tesi con Maroni) finiscano per affiancarlo in uno scontro interno dall’esito incerto.
Il dissolversi dell’elettorato leghista, mai così esiguo da decenni, rende improbabile che il Nord sofferente per la crisi torni in futuro a investire su un revival di Bossi, preso atto del fallimento della leadership di Maroni che ha lavorato bene per sé ma non certo per il partito. Ciò non significa che le pulsioni separatiste e reazionarie in cui per un quarto di secolo si è riversata la questione settentrionale abbiano fatto il loro tempo. Troveranno nuovi attori protagonisti.
Ma intanto il Nord Italia deve fare i conti con un’anomalia democratica evidente: le sue tre principali regioni — Lombardia, Veneto, Piemonte — sono guidate da altrettanti esponenti di un partito ultraminoritario che ha profittato della ricattabilità di Berlusconi per impossessarsi di un potere sproporzionato. Il naufragio della Lega segnala questo nodo da sciogliere a un Nord Italia ormai amministrato in larga misura da sindaci di centrosinistra. E se anche Maroni, per rimanere abbarbicato al poco che gli resta, continuerà a garantire una benevola astensione al governo Letta, il suo bluff va ben evidenziato. Se non altro i leghisti abbiano la compiacenza di smetterla di spacciarsi come portavoce del popolo del Nord, quando sono un partitino che non raggiunge il 5%.


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