La democrazia? E’ in outsourcing

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Martedì è stata davvero una brutta giornata.
E non solo per la neo-segreteria di Epifani, un’operazione di facciata che mi ricorda la fine della Dc, agli albori dei ’90: decine di correnti, 15 membri, nessuna delega, ognuno ‘appartenente’ a qualcuno. Ne ho parlato prima che i nomi fossero ufficiali, e devo dire che la realtà ha superato quella descritta dai retroscenisti.

No, non basta. Ci ha pensato anche Letta con la commissione dei 35 ‘saggi’ che devono riscrivere la Costituzione. Ora evito di ripetere che tutto questo parlare di riforme è solo ‘ammuina’, che rimanda le questioni centrali e non affronta i drammi veri della crisi politica ed economica, perché ormai è quasi estate, il sole è tornato, l’attenzione dei media scema, insomma delle cose serie se ne riparlerà in autunno, forse. Il punto che mi urta davvero è  un altro.

Possibile che la nuova costituente debba essere data in service esterno alle fondazioni, ai think tank, ai circoletti, ai noti accademici che funzionano in tv? Questo è un segno dei tempi, un pessimo segno. Ma i partiti e gli eletti, esattamente, a cosa servirebbero? Perché senza la politica siamo all’outsourcing delle riforme.

Quanto più questo governo va avanti, tanto più il manifesto di Fabrizio Barca assume di valore, a partire dalla critica all’esaltazione della tecnocrazia, nell’illusione che il sapere e la conoscenza (politica in questo caso) siano nelle mani di alcuni che indicano la via ai partiti. Perché, come dice Barca, è sempre più necessario che i partiti tornino ad essere un luogo di incontro di saperi, nella convinzione che le esperienze e le pratiche politiche migliori siano dovunque in tutto il territorio.

Perché i partiti devono riacquistare la funzione di palestra dove le conoscenze diventino patrimonio universale e si scelgano i migliori all’impegno nelle istituzioni.

Come ha scritto oggi un mio carissimo amico, Luciano Crolla, su Facebook: «Un parlamento esautorato. O forse la presa d’atto che dallo scontro politico non verrà niente di buono, che le eccellenze sono altrove, nelle fondazioni, nei cosiddetti think tank, nelle università. Insomma, l’ennesimo fallimento di questi partiti, della loro funzione di selezione di classe dirigente. Potevano essere 35 seggi, sono 35 saggi». Per la precisione.

PS: mentre scrivevo questo pezzo, ho riletto l’elenco dei costituenti. Brividi, ed emozioni. Erano intellettuali, filosofi, giuristi, uomini di partito, partigiani. Tutti eletti, tutti politici. E ciascuno di loro credeva fortemente nei partiti e nella loro funzione democratica.
Scusate la nostalgia.


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