La fabbrica salvata dagli operai

by Sergio Segio | 7 Giugno 2013 7:00

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Lo slogan è un motto ripreso dalle lotte degli operai argentini del post default del 2001: «Se c’è il “padrone” ma non ci sono i lavoratori la fabbrica non esiste più. Se manca il “padrone” ma ci sono i lavoratori la fabbrica può vivere ancora». Il fenomeno si chiama workers buy out, e a seconda dei casi si declina in occupazioni e autogestioni oppure attraverso esperienze più “istituzionalizzate” seguite dalla Lega delle Cooperative. Rappresenta un’alternativa possibile alla crisi del sistema produttivo: dal 2008 ad oggi Coopfond — società legata appunto a Legacoop e che finanzia gli esperimenti delle fabbriche recuperate — ha seguito 29 casi attivando un totale di 30 milioni di euro. Cifre che sembrano non fare notizia, ma che hanno consentito a 600 persone di riprendersi il lavoro. Da protagonisti. Non è un caso se adesso anche la Commissione europea si è messa a studiare i vari esempi che arrivano anche da Francia, Spagna e Inghilterra; il risultato del focus diventerà uno dei capitoli del dossier “Trasferimenti di impresa”.

Gli esempi sono equamente distribuiti in tutta Italia: multinazionali che chiudono icancellideglistabilimenti per delocalizzare, molto spesso; lavoratori che non ci stanno a tornarsene a casa con le pive nel sacco e, forti della propria esperienza e buona volontà, tentano il rilancio della fabbrica investendoci soldi propri. Rilancio che di rado è in grande stile, perché non si diventa manager di se stessi dall’oggi al domani. Ma a sopravvivere ci riescono (quasi) tutte, «con fatica e sacrificio, ma tiriamo avanti e dimostriamo che a noi l’assistenzialismononpiace»,racconta Michele Prà, Ad della fonderia
Zen di Albignasego, pochi chilometri da Padova. Una storia cominciata nel lontano 1925. Solo cinque anni fa il gruppo Zen poteva vantare sette siti produttivi tra Italia e Francia, 1.900 dipendenti e un fatturato di circa 500 milioni di euro. Poi la crisi del ramo francese che si ripercuote sullo stabilimento veneto. Seguono anni di battaglie sindacali e politiche, di nottate accampati, di viaggi della speranza da questo ministro o da quel sottosegretario, la solita trafila insomma. Ma in quel periodo nasce l’ideadimettereinsiemeleprofessionalità che già ci sono. Dirigenti e lavoratori tirano su una società, con i primi che ci mettono i propri risparmi e i secondi che investono quote del Tfr per fondare la cooperativa. «Siamo partiti lo scorso primo ottobre — racconta Prà, alla Zen dal 1978 — in tutto 116 dipendenti, 115 provenienti dalla vecchia società. Ci troviamo ai volumi minimi, ma non chiudiamo e anzi basterebbe che l’energia costasse quanto nel 2008 per stare bene. Ci sentiamo tutti coinvolti in questa impresa, cambia il livello di responsabilità e non è detto che sia un male». Meglio buttarsi e rischiare, crederci, piuttosto che restare a casa, spiega. Soprattutto in tempi grami dove se perdi un posto non lo ritrovi più da nessuna parte.
A Trezzano sul Naviglio, alle porte di Milano, l’esperimento della Maflow (ribattezzata Ri-Maflow) si nutre di un alto tasso politico e simbolico: «Il sistema finalmente è crollato — si legge sul sito- blog della nuova società — non lasciamoci sfuggire questa rara e preziosa opportunità. Non permettiamo che siano i soliti a scrivere
le regole del nuovo sistema. Non diamo loro il tempo di riorganizzarsi. Entriamo noi nella storia, la nostra storia, e cambiamola. Oppure saranno sempre le stesse, logore, vecchie idee, quelle che non vogliamo, travestite da nuove, ma senza quel nostro sogno, quella nostra speranza, senza tutto quello che, anche se non ci eviterà mai di soffrire, ci potrà far dire di essere davvero felici». La vicenda è questa: l’azienda progettava e produceva componen-tistica per il condizionamento auto, rifornendo colossi come la Bmw. Nel 2009 il Tribunale di Milano dichiara Maflow in stato di insolvenza: trecento milioni di debito, risultato di operazioni finanziarie finite male. È la Borsa che si mangia il lavoro, la produzione. Dopo una fase di amministrazione straordinaria arrivano i polacchi della Boryszew a metterci una pezza, e invece la cura si rivela peggio della malattia: dopo due anni vissuti a singhiozzo chiudono lo stabilimento una volta per tutte. È la fine, e invece no. È lì che comincia la seconda vita dell’azienda. Parola d’ordine: autogestione.Fabbricaoccupata, cooperativa fondata e 20 lavoratori riassunti, nuova ragione sociale: riciclo di materiale industriale e in più una parte dello stabilimento che verrà adibita a centro di distribuzione dei prodotti del parco agricolo. Due anni di tempo per rilanciarsi — la durata della mobilità di cui godono i lavoratori — e far diventare concreto «un modello sociale, mutualistico, ambientalista e solidale», dice con una certa fierezza Luigi Malabarba, uno dei soci.
Alla ex Evotape di Castelforte, comune laziale ai confini con la Campania, la storia è simile. Dalla fabbrica con padre padrone di origini siciliane fondata negli anni ’50, passando per la multinazionale, poi un fondo lussemburghese e un’altra multinazionale, per finire con la cooperativa composta da 53 soci. Oggi producono nastri per gli imballaggi, eppure solo due anni fa ai capannoni erano stati messi i lucchetti. Colpa di vicende che poco hanno a che vedere con il lavoro materiale e che passano per la Tyco, azienda americana coinvolta nel crac della Enron. Da lì il successivo arrivo di un gruppo di “capitani coraggiosi” messicani che sembrano usciti fuori da un film e che a parte scaricare sulla collettività i costi della ristrutturazioni lacrime e sangue combinano ben poco. «Quando ero giovane gridavamo “la terra ai contadini e la fabbrica agli operai” — ricorda il sindacalista della Cgil Dario D’Arcangelis — . Se il capitale se ne va è giusto che la fabbrica resti a chi ci lavora. Altrimenti restiamo in mano ai delocalizzatori di professione». Non è tutto oro quello che luccica, però. «Sono in corso contatti per trovare nuovi clienti perché è dura, ma a parte questo bisogna fare il possibile per aiutare queste iniziative. Questa è gente che dà un messaggio di valore alla società». E alla sinistra, magari. L’orgoglio non manca. «Ai tempi del Pci la Manuli (il vecchio nome, ndr) la chiamavano “Stalingrado”».
Ancora più a sud c’è la Calcestruzzi Ericina Libera di Trapani, il vecchio padrone era un’altra multinazionale: la mafia. Prima il sequestro da parte dello Stato nel 1996, poi la confisca nel 2000, l’amministrazione controllata e infine la nascita della cooperativa nel 2008. Tre milioni per rilanciarla sono arrivati dal Por Sicilia, ma i lavoratori si sono accollati un mutuo ventennale di 700 milioni e hanno investito parte della liquidazione. Erano in 13 quando c’era la mafia a comandare, sono rimasti 13 oggi (di cui 6 soci). «Andiamo in pari tra entrate e uscite — racconta Giacomo Messina — abbiamo subito boicottaggi, poi i boss volevano ricomprarsi l’azienda attraverso un prestanome. Non è l’America, le difficoltà sono numerose. Però sappiamo di essere un simbolo positivo, un esempio concreto di legalità e cooperazione».
Quello delle fabbriche recuperate è un modello esportabile anche su larga scala? «Non dobbiamo coltivare l’illusione che siccome si tratta di un’iniziativa politica forte — spiega il direttore della Coopfond Aldo Soldi — allora sia una strada in discesa. La prima ragione è che questi casi riguardano spesso aziende che già vivevano condizioni difficili. La seconda è che una cooperativa richiede di essere vissuta come tale anche dai dipendenti e non è sempre scontato cambiare l’abito mentale». Non hai più chi ti dice come fare le cose e quando farle, insomma. Cambia il coinvolgimento, anche emotivo. E muta pure il ruolo del sindacato. «Che aiuta, diventando più flessibile su retribuzioni e orari di lavoro». Tradotto: si guadagna di meno e si lavora di più. Ma vuoi mettere — sembra questo il succo dell’esperienza delle fabbriche recuperate — vivere senza più “padroni”?

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