L’ILIADE DI TARANTO

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NON sono affatto contenti gli operai dell’Ilva. Dal commissario potevano aspettare il ripristino di una legalità produttiva e di un clima umano: gli operai trattati come interlocutori liberi e competenti e i quadri restituiti al gusto del lavoro fatto bene. Si chiedono come si concili l’amministratore dei Riva col commissario del governo. (Sempre ieri, sono stati resi noti i pessimi dati sui tumori a Taranto). La tragicommedia Ilva approda così a “1 commissario (pagato come il Primo Presidente della Cassazione), 2 sottocommissari, 5 esperti, 2 garanti, 3 custodi tecnici, 1 custode amministratore, 2 presidenti…” (composizione rettificata in extremis, ndr).
Ammesso che loro interessi, abbozziamo un quadro dell’azienda come la descrivono i principali esperti, gli operai.
«All’Acciaieria 2 c’è un carroponte pieno di amianto, ci rifiutiamo di salirci, si guida col joy-stick, ma con gli accrocchi di fili sospesi l’amianto è smosso di qua e di là. E dicono che con le “pratiche operative” si può maneggiare…». «Alla colata continua vanno quattro linee, nonostante i pochi operai e il caos: niente pezzi di ricambio, smontiamo tutto e rimontiamo, torna buono anche un tubo raccolto per terra. Sabato era esplosa una siviera (la caldaia di colata), un’iradiddio. Lunedì al trattamento siviere un operaio si è ustionato la faccia con un getto incandescente, non aveva la maschera, bisognerà vedere perché. I guanti ormai li danno 2 o 3 volte al mese». «Per tagliare le bramme si riusano le punte ossitali vecchie, un rumore bestiale. Manca il gasolio per i mezzi». C’è stato un ennesimo “slopping”, grave. Succede così: si immette ossigeno nel convertitore della ghisa liquida in acciaio; se le cappe non aspirano a dovere, si sprigiona la nuvola arancione di ossido di ferro. «Come quando versi la birra in fretta, e la schiuma trabocca. Se il carroponte versa in mezzo minuto invece che in tre o quattro, la ghisa trabocca e i fumi si spandono». Succede anche che l’aspirazione sia troppo potente, e deve andare a marcia ridotta, come con lo slopping di due lunedì fa, raccontato dagli autori incolpevoli. «Ho caricato la ghisa, il forno soffia e riprende, come un aspirapolvere, ho caricato in 10 minuti invece che in 3 o 4, e al soffiaggio è partito lo slopping. Venne il ministro a inaugurare l’impianto, chiediamo a lei: se lo mandi a regime aspira anche le lamiere, ci troviamo l’acciaieria scoperchiata ». «Io c’ero alla prima carica, aspirava le pietre a 10 metri, le lamiere del tubo di aspirazione precedente, se lo mandavi al massimo sbullonava tutto. Lo devi mandare come quello di prima, al 30 per cento». «Stamattina il forno era freddo, ti dicono carica piano, poi entrano con la lancia di soffiaggio a una pressione tale che fra freddo e caldo diventa un vulcano, un’eruzione che non vedevo più nemmeno il carroponte ». «Ci sono 64 denunce presentate sull’effetto slopping…». «Venne un ingegnere dell’Arpa da Roma, inizio a caricare, su 400 tonnellate ne carico 2 di ghisa e l’aspirazione sballa, e quello fa: “E poi si lamentano, guarda come funziona bene!”».
«Ci sono 1.500 persone che versano acciaio sul suolo non pavimentato». «Chiunque sia il commissario, deve fermare gli impianti e bonificare». «I lavoratori di Taranto sono 3.100. La gran maggioranza viene dai paesi della provincia, pensano che stare a Laterza o a Manduria li metta al riparo ». «La fabbrica forse chiude, e in tanti chiedono solo: ma il 12 ci pagano?». «Però vuol dire che davvero vivono alla giornata, e hanno paura di non farcela a passare il mese». «Il governo dovrebbe venire a parlare con noi». «Bisognerebbe bloccare tutto ». «A bloccare tutto basterebbero poche persone, tecnicamente: ma controllare davvero lo stabilimento è altro affare. È già fermo per metà, ci sono centinaia di persone in Cassa Integrazione da un anno. L’Altoforno 1 è fermo da 8 mesi, e non hanno
sostituito un bullone». «L’Afo 5 doveva essere spento per il rifacimento del crogiolo, occorreva poco più di un mese per i periti, 36 mesi per l’Ilva». «Ai rivestimenti tubi produciamo plastiche, vernici, dove li smaltiscono questi prodotti chimici? Impastano terra e vernici e via».
Le ditte di appalto sono al lumicino. Un pregiudizio fa credere che fossero lavoratori meno qualificati, spesso era il contrario. Presidiano la fabbrica in questi giorni la Tecnoimpianti, la Nuova Canepa, la Techin: non sono pagati da mesi, i loro padroni non erano in regola coi contributi, e l’Ilva ne fa il pretesto per non pagare a sua volta. Sono specializzati nella manutenzione meccanica, Raccontano delle centraline senza l’olio idraulico, le fermate notturne, i bulloni vecchi riciclati – «e se le rondelle non ci sono, non le mettete!». Il carrello avvitatore guasto, che dev’essere rimandato al produttore, e intanto si svitano bulloni grandi come pizze a colpi di mazza. (Al tubificio, M. picchia con una mazza di 5 kg sulla giuntura dei tubi e un compagno egiziano gli batte sulla spalla. «Che c’è, Mustafa?» «Noi non abbiamo sudato tanto nemmeno per costruire le piramidi »). Raccontano storie vecchie: alla Sanac, qui di fronte portavano loppa e rifiuti speciali invece di smaltirli, lì «impastavano quella merda e la riportavano in forma di mattoni refrattari: finché arrivò la finanza e chiuse tutto». «A noi non ci vogliono più, fanno venire ditte del nord e lavoratori stranieri a paga globale, come dicono, 3 mila euro tutto compreso, cioè compresi orari infernali, sicché le paghe orarie sono di 9 euro. Fanno contratti a chiamata, perfino giornalieri: stai ad aspettare, e poi ti fai 10 ore e buonanotte!». Alfonso è giovane, ha due figli, l’Unicredit gli porta via la casa. «Valore 80 mila euro. Nel 2010, dopo 4 mesi non pagati, la mia banca non mi aveva detto niente, e non recuperai più: è andato tutto agli interessi. Solo rubando potrei pagare il mutuo. Mia sorella ha 4 figli, la casa è già andata all’asta. La mia il 22 giugno». Raccontano un vecchio Capodanno: «All’Afo 4, il refrattario era caduto all’interno, eravamo una trentina, bisognava forare con l’ossitaglio per applicare la malta, dentro 1.800 gradi, a ogni buco della corazza divampava il fuoco, qualcuno svenne, avevamo cominciato il 30 dicembre alle 20 e finimmo all’alba dell’anno dopo… Ci portarono solo dei panzerotti, e pochi, ce li litigammo».
C’è un’Iliade. Taranto è un paradiso (saccheggiato e quasi perduto) dell’archeologia greco-romana. I 1.500 ettari del-l’Ilva, due volte e mezza la città degli abitanti, sono un inferno dell’archeologia contemporanea. L’antica Troia, nei calcoli più generosi, occupava 35 ettari, la metà dei parchi minerali dell’Ilva. Dentro una pancia di cavallo costruito dai magistrati, per la prima volta dopo decenni, ispettori sanitari, custodi giudiziari, carabinieri ecologici, sono penetrati tra le rovine ciclopiche dell’Ilva e si sono messi a scavare dentro le stratificazioni di materiali tossici e rifiuti non smaltiti. L’Ilva non è l’assediata, ma l’assediante, e soprattutto dentro ci sono i troiani vivi, a migliaia, e, a condizione di starli a sentire, cantano tutta la storia. Questo incontro formidabile non è ancora avvenuto. Il decreto di sequestro degli 8 miliardi, ieri vanificato, ricapitolava quello che gli sguardi forestieri di custodi e carabinieri hanno scoperto dentro la fabbrica finalmente aperta ad estranei che non fossero autorità e visitatori menati in pulmino e per il naso a fare il giro di ordinanza. Denigrati a un tanto a riga, i custodi giudiziari tecnici, Barbara Valenzano, Claudio Lofrumento e Emanuela Laterza, con i carabinieri del Nucleo ecologico di Lecce, avevano appena ricevuto l’incarico di visitare senza preavviso di giorno e di notte la fabbrica, e di riferire almeno ogni settimana. C’è da sperare che almeno questo resista alla giravolta governativa: «Via Gigino, via Gigetto, torna Gigino, torna Gigetto». Le storie di chi all’Ilva lavora e vive restano ancora non raccolte.
Chissà se a Bondi piacciono le storie


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