Melfi, riparte il processo infinito

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Ci sono voluti tre anni perché ieri la procura di Melfi citasse in giudizio gli operai della Fiat Antonio Lamorte, Giovanni Barozzino e Marco Pignatelli, nonostante tre sentenze civili abbiano bocciato la tesi del sabotaggio, sostenuta dall’azienda.
I fatti risalgono al 7 luglio 2010, secondo l’accusa i tre «in concorso e previo concerto tra loro, nel corso di una manifestazione sindacale, sostavano deliberatamente, in violazione delle norme sulla viabilità interna dello stabilimento, sulla banda magnetica per il transito dei carrelli». Cioè «volontariamente e consapevolmente» avrebbero impedito il passaggio delle piattaforme robotizzati per l’approvvigionamento della linea di montaggio, bloccando così la produzione. Un atto sanzionato all’epoca con il licenziamento. La prima udienza il 5 dicembre prossimo.
Una tempistica strana quella della procura, visto che di solito le indagini durano sei mesi, prorogabili per ulteriori sei, per poi decidere se andare a processo o meno. In questo caso i pm ci hanno pensato per altri due anni. Stana anche perché giovedì prossimo è attesa l’udienza finale in cassazione del processo civile. Nei precedenti tre gradi, due hanno accertato non esserci stato sabotaggio ma comportamento antisindacale da parte della Fiat, disponendo il rientro a lavoro dei tre operai. In uno si rigettava la tesi del licenziamento antisindacale ma si ribadiva l’assenza di sabotaggio. Il Lingotto correva il rischio di finire in un angolo, adesso gli avvocati possono continuare a tenere la partita aperta fino a dicembre e, magari, sperare che questo metta un po’ di pressione sulla cassazione. Il tribunale di Potenza nel primo grado del giudizio civile aveva affermato «con sufficiente grado di certezza» che «quando gli scioperanti si sono riuniti in assemblea nei pressi del carrello, quest’ultimo era già fermo». Un’affermazione basata anche sugli atti dell’inchiesta fatta nello stabilimento di Melfi. Del resto la Fiat ha provato ad appigliarsi a tutto, in aula aveva addirittura presentato una foto come prova della colpevolezza, ma il sito immortalato non corrispondeva a quello nel quale si erano svolti i fatti. Giovanni Barozzino aveva smentito l’azienda indicato il luogo esatto, contrassegnato da strisce gialle a terra. Un clima pesante sopportato per mesi, fatto anche di minacce verbali e via sms.
Tre anni fa gli operai stavano protestando per le condizioni in cui erano costretti a produrre: «Eravamo in una situazione terribile – racconta Antonio Lamorte -, la Fiat aveva mandato un turno in cassa integrazione e aumentato i carichi di lavoro dei restanti due. Così noi faticavamo di più mentre la collettività pagava la cig. Erano le prove generali di quello che è successo poi: avere la mano libera su tutto senza nessuna forma di contestazione».
Dopo il primo grado la corte dispose che i tre tornassero a lavoro ma hanno rimesso piede in fabbrica solo per un breve periodo e solo per fare attività sindacale: all’epoca erano ancora Rsu della Fiom, poi è arrivato il nuovo contratto, l’uscita da Confindustria, le Rsu sono diventate Rsa e la Fiom non ha più avuto rappresentanza a Melfi. «Sulla postazione di lavoro non siamo mai tornati, neppure dopo il terzo grado. Ci siamo presentati ai cancelli con l’ufficiale giudiziario ma la Fiat ha fatto appello. Ci paga per stare a casa».
Per il Lingotto sono come un monito agli altri operai. «È bene che i processi si facciano nelle aule dei tribunali – il commento di Giovanni Barozzino, eletto senatore con Sel – e noi siamo pronti a farli ma chiediamo solo che finalmente si porti a galla tutta la verità in questa lunga storia».


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