Ogni tre mesi 18 mila negozi in meno e i piccoli si alleano ai supermarket

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Magari c’è chi esagera: «In 10 anni non ci saranno più negozi», dice Confesercenti con una profezia dal sapore Maya. Ma la crisi del commercio è una realtà. Ed i numeri raccontano un fenomeno che allo stesso tempo è spia e causa del momento che sta attraversando l’Italia. L’Istat ci ha appena ricordato che la spesa delle famiglie continua a scendere, -3,4% in un anno. E questo non vuol dire solo meno affari per ogni panettiere o per ogni ferramenta. Ma anche, brutalmente, meno panettieri e meno ferramenta.

Nei primi tre mesi di questo 2013 il saldo fra le aperture di nuovi negozi e le chiusure di vecchie botteghe fa segnare meno 18 mila. Più morti che nati. E se continuiamo così, dicono le statistiche di Confcommercio, l’anno si chiuderà con la perdita di 70 mila negozi, il doppio che in tutto il 2012.

Un fisco che strozza, una giustizia che non cammina, in generale un clima poco favorevole al business , grande o piccolo che sia. Tutte giustificazioni reali che portano il settore a invocare il blocco dell’aumento dell’Iva e una diminuzione delle tasse sulle famiglie. Mentre la guerra fra l’alimentari all’angolo e l’iper da raggiungere in macchina non sembra più al centro del tavolo: «L’effetto sostituzione tra piccoli e grandi – dice Mariano Bella, direttore dell’ufficio studi di Confcommercio – c’è stato 7/8 anni fa. Ma adesso anche loro sono in sofferenza». Conferma Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione, l’associazione dei grandi: «I bilanci del 2011, gli ultimi disponibili, dicono che l’utile netto è lo 0,1% del fatturato. Siamo all’osso». E questo anche perché la crisi costringe a tagliare i margini di guadagno: nella grande distribuzione il fatturato dei prodotti in offerta è arrivato al 28%. Un prodotto su tre. Una politica dei prezzi che rischia di mettere fuori mercato il vecchio alimentari all’angolo? Non è detto perché la novità di questi ultimi anni sta nel franchising, supermercato di quartiere a conduzione familiare con un grande gruppo alle spalle che fornisce la merce. Considerando anche i prodotti non alimentari, in Italia sono 54 mila, 190 mila addetti, con un fatturato in crescita di 2 punti rispetto al 2011. Un miracolo in un diluvio di segni meno, un segnale di come la desertificazione dei negozi non sia una condanna ineluttabile. E nemmeno l’unico degli esempi possibili.

A Milano si lavora ai Duc, i Distretti urbani del commercio. Strade o zone della città dedicate ad un singolo ramo di attività, come i ristoranti intorno a piazza 25 aprile. O come Corso Buenos Aires, dove il progetto è ancora più ambizioso: «Stiamo cercando di organizzarla – dice Franco D’Alfonso, assessore al commercio del Comune – come un unico grande mall, con una turnazione di orario fra i negozi esistenti che ci consenta di tenere la strada viva h 24. Non come la Galleria Vittorio Emanuele, che alle sette e mezza di sera chiudono tutti e buona notte». Ma non è facile, resistenze e gelosie non sono semplici da superare dopo una vita passata a farsi concorrenza. Con il risultato che fra tasse, affitti e stipendi, alzare bandiera bianca per alcuni è inevitabile. Quante volte, però, dietro la chiusura di un negozio c’è un figlio che non vuole continuare il lavoro del padre? «Anche nel nostro settore – dice il direttore dell’ufficio studi di Confcommercio – la staffetta generazionale è un tema che andava affrontato prima». Come? «Bisognava potenziare l’apprendistato, le scuole professionalizzanti. E invece abbiamo preferito fare tutti il liceo classico, prendere la laurea magari in scienza della comunicazione per poi ritrovarci a far cosa?». Non siamo ancora al «meglio fare l’idraulico che andare ad Harvard», del sindaco di New York Michael Bloomberg (che tra l’altro proprio da Harvard è uscito). Ma poco ci manca.

Lorenzo Salvia


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