Pentole contro lacrimogeni Le due Turchie si affrontano

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ISTANBUL — Salina, 58 anni, è seduta su una panchina di Süleymen Seba Caddesi, la strada nel quartiere di Besiktas, a Istanbul, che di notte diventa un campo di guerra. Sbocconcella del pane insieme alla figlia che è al sesto mese di gravidanza mentre attende l’arrivo dei manifestanti: «Tayyip (il premier Erdogan, ndr) se ne deve andare — dice al Corriere — lui ha ucciso la Turchia, ci ha tolto il verde per costruire le sue opere faraoniche e le sue moschee che sono ovunque». Casalinga, tre figli ormai grandi, un marito pensionato, ex impiegato del Comune, Salina vive di stenti: «I soldi che prendiamo per la pensione ci bastano a pagare luce, gas e poco altro». Quando l’altra sera ha visto la gente sfilare davanti a casa sua questa donna dal viso tondo e dallo sguardo bonario non ci ha pensato due volte: ha preso una padella e ha cominciato a fare rumore con una forchetta davanti alla porta di casa, un appartamento a pianterreno arredato modestamente e dalle pareti spoglie dove l’unica nota di colore è la foto del matrimonio della sua bambina. Lo stesso ha fatto Berrin, 63 anni, malata di cancro, un marito in pensione e la figlia archeologa. Ci offre un té mentre ci mostra la finestra della cucina da cui si è affacciata: «Erdogan vuole cancellare Atatürk e noi non glielo permetteremo» dice convinta. Il tam tam di queste donne è risuonato per le strade di Istanbul e di tutta la Turchia: sono state tante le madri di famiglia che hanno appeso la bandiera del Paese ai balconi e si sono mostrate con le pentole in mano. Un gesto coraggioso perché così facendo sono diventate l’obiettivo della polizia che ha sparato i lacrimogeni fin dentro le case.
Da Taksim a Besiktas Istanbul sembra una città fantasma, le strade sono bloccate dalle barricate e i turisti raggiungono gli alberghi a piedi trascinandosi i bagagli, su un furgone della polizia mezzo carbonizzato i dimostranti hanno scritto «Siamo i soldati di Atatürk» ma il panorama non è desolante, le strade sono pulite, ogni due metri c’è un sacchetto dove buttare l’immondizia perché i rivoltosi ne hanno fatto un punto d’orgoglio: «Erdogan ci ha chiamato vandali, ecco la nostra risposta», dice una ragazza che frequenta il Marmara Fine Arts College e ha steso un lenzuolo per terra su cui ha scritto: «Quando siamo sordi creiamo una rima, quanto siamo ciechi dipingiamo un’opera d’arte e quando siamo vandali diventiamo l’opposizione». Poco più in là alcune persone distribuiscono, gratis, generi di conforto: acqua, pane, biscotti. Si pagano, invece, le mascherine per proteggersi dai lacrimogeni: «Bisogna coprirsi anche il corpo perché fa bruciare la pelle», spiega in tono paterno un signore anziano completamente sdentato.
Istanbul oggi è una città in cui la gente di giorno lavora e la sera protesta. Verso le sei di pomeriggio fiumi di persone convergono verso piazza Taksim. Ci sono un’avvocata ancora in completo da ufficio e un uomo d’affari sulla cinquantina. Non vogliono dire i loro nomi. «Abbiamo paura — spiegano — perché il premier è vendicativo, se sa che siamo qui ci fa licenziare». L’atmosfera, però, è quella di una grande famiglia: «Pensavo di essere così sola — dice Seda, una donna bionda dall’aspetto curato, truccatissima — invece ho scoperto che siamo in tanti. Erdogan ha fatto anche del bene ma non ha senso del limite. Questa non è una democrazia e non voglio che mia figlia cresca in un Paese del genere. Dobbiamo cambiare, o adesso o mai più».
La domanda che si pongono in tanti è come far crescere la protesta, come convogliare tutti questi rivoli di persone in un’unico movimento: «Non vogliamo essere un partito — spiega Sadi, 32 anni, mentre sorseggia un bicchiere di vino bianco — ma abbiamo bisogno di un rappresentante, tra dieci mesi ci saranno le elezioni e cosa succederà? Si rende conto che potrei non essere più in grado di bere alcolici all’aperto? O di baciare la mia ragazza?».
È proprio su questo che conta Erdogan quando, prima di partire per una visita ufficiale in Marocco, dice «state tranquilli, passerà tutto. Qui la primavera turca c’è già stata ma c’è chi vorrebbe trasformarla in inverno», concludendo che «la situazione sta tornando alla normalità». Il premier, insomma, non abbandona i toni di sfida neanche nel giorno in cui si contano i primi due «martiri» della rivolta: un giovane manifestante colpito alla testa ad Ankara e un ventenne investito da un taxi a Istanbul durante l’occupazione di una superstrada.
Molto più concilianti i toni del presidente della Repubblica Abdullah Gül che, invitando alla calma i manifestanti, ha assicurato: «Democrazia non vuol dire soltanto elezioni, se ci sono obiezioni è più che naturale esprimerle in modo pacifico». Un messaggio indiretto al premier che aveva invitato i manifestanti a esprimere nelle urne il loro dissenso.
Chi è in piazza, però, non ha intenzione di tornare a casa, nonostante i lacrimogeni che ieri sera sono tornati a fioccare su Istanbul. Anzi, la protesta si allarga. Ieri la Confederazione dei sindacati dei lavoratori pubblici ha proclamato uno «sciopero» di due giorni, a partire da oggi, per protestare contro il comportamento della polizia. E preoccupazione per l’eccessivo uso della forza viene espressa anche dal segretario di Stato americano John Kerry e dal portavoce della Casa Bianca, Jay Carney. Erdogan è avvisato.
Monica Ricci Sargentini


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