QUANDO CUCCIA ERA IL SOVRANO

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C’è un merito storico principale che viene quasi unanimemente riconosciuto alla Mediobanca di Enrico Cuccia: quello di aver salvato il capitalismo privato italiano non solo dalle tentazioni stataliste del potere politico ma anche, talvolta soprattutto, dalle vocazioni autodistruttive latenti in non poche delle grandi famiglie di quello che un po’ pomposamente veniva chiamato il “Gotha” finanziario nazionale. Nell’Italia dell’immediato dopoguerra su tutto e tutti domina un obiettivo primario: la ricostruzione economica di un paese che la guerra fascista ha davvero condotto nudo alla meta. In particolare, la situazione appare drammatica sul versante privato dove i grandi capitalisti, che hanno flirtato col regime mussoliniano sfruttandone i benefici protezionistici contro la concorrenza e contro i sindacati, sono costretti dalla realtà a fare i conti con se stessi e i propri portafogli. Non mancano quelli che vorrebbero lanciarsi in nuove avventure imprenditoriali, ma molti scoprono di essere capitalisti più di nome che di fatto. Per fare significativi investimenti ci vogliono soldi, tanti soldi. A impiegare tutti quelli propri scoraggia un clima politico di grande incertezza, mentre il ricorso a quelli delle banche è ostacolato dalla carestia pecuniaria generale.
Ed è esattamente in questo quadro che Enrico Cuccia concepisce la sua creatura: una banca di mediocredito per finanziare
il rilancio delle maggiori industrie private. Cosicché Mediobanca nasce e prospererà raccogliendo, attraverso i canali delle tre grandi banche di interesse nazionale allora in capo allo Stato, cospicui fondi da utilizzare per consolidare l’economia privata e difenderla dal rischio di scivolamento in mani pubbliche.
L’ambiguità congenita a questo schema – lo stesso Cuccia amava definirsi un centauro, senza mai chiarire se pubblica o privata fosse la metà uomo o la metà cavallo – si rivelò comunque vincente. Altro che “salotto buono”: in un paio di decenni Mediobanca diventa la stanza di compensazione dei maggiori conflitti del potere economico nazionale. Metamorfosi che, al tempo stesso, segna l’apice del suo potere e la degenerazione del medesimo in cinico disprezzo delle regole di mercato. Chiusa la fase eroica del rilancio delle imprese private, infatti, Cuccia smette per certi versi di fare il banchiere e si erge a Lord protettore del capitalismo domestico. La sua arma principale non sono più tanto i finanziamenti, quanto le manovre di Borsa, le manipolazioni societarie, il ricorso a patti “sindacali” d’ogni sorta per ingessare i gruppi di comando delle aziende amiche di Mediobanca o per disarcionare al contrario quelli che ai suoi ordini non stanno.
Nel chiuso delle stanze dell’allora Via Filodrammatici si consumano così autentici delitti economici in spregio della lungimiranza imprenditoriale. Dapprima viene abbandonata a se stessa l’industria elettronica cui Adriano Olivetti aveva dischiuso verdi praterie. A seguire è la chimica, dove Cuccia promuove la nascita del colosso Montedison ma poi manovra come agente di cambio nella scalata da parte dell’Eni, aprendo così la via al più grande sfacelo industriale dell’ultimo mezzo secolo. Ma nessuno in quegli anni ha il coraggio di fiatare, neppure il principe dei privati, Gianni Agnelli, che anzi dovrà subire in casa propria l’umiliazione di nomine Fiat targate Mediobanca.
Ora, dicono i successori di Cuccia, si cambia strada. Sarà, ma in un paese di capitalisti renitenti coi capitali il gattopardo è sempre in agguato e alto rimane il rischio che qualcuno sia già pronto a replicare la commedia delle beffe al mercato: come qualche banca nei recenti casi Pirelli e Rcs.


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