Sindrome dei Balcani, la storia infinita

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Nel 2001 scoppia il caso Sindrome nei Balcani, con l’emergere dei primi casi di militari italiani ammalatisi o deceduti al rientro dalle missioni in Bosnia Erzegovina e Kosovo. Due paesi bombardati dalla Nato, nel 1995 e nel 1999, con proiettili all’uranio impoverito (DU). Da allora è una battaglia: tra chi nega l’esistenza di una correlazione tra esposizione al DU e malattia, e chi sostiene il contrario con numeri di morti e malati alla mano e sentenze di condanna a carico del ministero della Difesa.
L’uranio impoverito (Depleted Uranium) deriva da materiale di scarto delle centrali nucleari e viene usato per fini bellici per il suo alto peso specifico e la sua capacità di perforazione. Quando un proiettile al DU colpisce un bunker o un carro armato, vi entra senza incontrare resistenza e alla sua esplosione ad altissima temperatura rilascia nell’ambiente nano-particelle di metalli pesanti. Ad oggi, viene confermato dalla ricerca scientifica che questi proiettili sono pericolosi sia per la radioattività emanata sia per la polvere tossica che rilasciano nell’ambiente. Una neverending story anche per i cittadini di Bosnia, Serbia e Kosovo: nonostante il battage mediatico, poco si è fatto per analizzare in maniera approfondita le conseguenze di quei bombardamenti.
Battaglia giuridica e politica
Una sentenza dello scorso 18 marzo, emessa dalla Corte dei Conti della Regione Lazio, accoglie il ricorso di un militare ammalatosi di tumore, al quale il ministero della Difesa aveva rigettato la richiesta di pensione privilegiata. Il ministero ha rifiutato la richiesta in base al parere negativo del Comitato di verifica per le cause di servizio che ha definito la malattia del militare di tipo ereditario e non dipendente dal servizio svolto nei Balcani. Dalla sentenza della Corte laziale emergono invece due fatti: la diagnosi del Comitato è errata e la malattia è correlata alle condizioni ambientali in cui è stato prestato il servizio in Kosovo.
Il Caporal Maggiore dell’esercito italiano, recita il testo della sentenza, «aveva soggiornato presso la base militare italiana vicino a Pec/Peja e aveva svolto attività di piantonamento (…), in ambiente esterno sottoposto a intemperie e devastato dai bombardamenti» e «altri servizi». Al rientro dal Kosovo viene ricoverato a Milano, poi messo in congedo illimitato e ricoverato in altro centro clinico: gli viene riscontrata una linfadenopatia in diverse parti del corpo e un adenocarcinoma intestinale.
Diverse perizie medico legali nominate nella sentenza, attestano che nei tessuti neoplasici del militare sono state trovate molte nano-particelle «estranee al tessuto biologico, che quindi testimoniano un’esposizione a contaminazione ambientale». Tra le numerose sentenze vinte dall’avvocato Tartaglia, legale dell’Osservatorio Militare, questa è la prima che mette in correlazione la malattia ai pasti consumati nelle cucine delle mense sottoufficiali.
«Dagli atti risulta che tutti gli alimenti distribuiti alla mensa e allo spaccio della base ove prestava servizio il ricorrente, compresa l’acqua utilizzata sia per l’alimentazione sia per l’igiene personale, erano oggetto di approvvigionamento in loco, e che era stato consentito ai militari di acquistare autonomamente carne macellata e verdure coltivate in loco» e dunque «quei luoghi dichiaratamente inquinati da DU e dalle sue micro polveri sono da porsi in rapporto etiologico con l’insorgenza della neoplasia». Un dato certo è che la zona del Kosovo posta sotto protezione del contingente italiano è quella che nel 1999 fu più bombardata (fonte Nato/Kfor ): 50 siti per un totale di 17.237 proiettili.
Manifestazione a Montecitorio
«Sono 307 i militari morti e oltre 3.700 i malati, per quanto riguarda i dati di cui siamo in possesso» ha dichiarato Domenico Leggiero – portavoce dell’Osservatorio Militare – a Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc). Il 9 maggio, Leggiero ha incontrato un gruppo di deputati e senatori del Movimento 5 Stelle e il 3 giugno è stato il turno dell’incontro della delegazione formata da Leggiero, familiari di militari deceduti e militari ammalati con Domenico Rossi, indicato da Scelta Civica quale parlamentare di riferimento per la questione uranio impoverito. «Per la prima volta – dice Leggiero – abbiamo avuto incontri ufficiali con forze politiche che hanno deciso di affrontare a fondo la questione e proposto una strategia per chiarire definitivamente il nesso tra le malattie e il DU, oltre a lavorare su normative apposite per l’assistenza sanitaria ed economica dei malati».
L’intento degli incontri è anche risollevare l’attenzione sulla Sindrome dei Balcani che, secondo i dati dell’Osservatorio, continua a mietere vittime. Per questo, il 5 giugno, davanti a Montecitorio, hanno manifestato quasi duecento persone tra militari ed ex-militari ammalati, familiari e rappresentanti di associazioni. Racconta Leggiero a Obc: «Un pomeriggio intenso. Abbiamo proiettato video del Pentagono, fatto conoscere al pubblico le sentenze e distribuito documenti sul tema DU, resi pubblici in tutto il mondo eccetto che in Italia». Aggiunge che non hanno ancora ottenuto l’incontro richiesto con la presidente della Camera, Laura Boldrini, e non hanno ottenuto risposta da Pd, Pdl e Fratelli d’Italia. Ma Scelta Civica e 5 Stelle hanno assicurato che si terrà presto una seduta ad hoc in Commissione difesa. Presenti il deputato Domenico Rossi che ha ribadito l’impegno «per sciogliere i nodi fondamentali di questa vicenda», e Matteo Dell’Osso del M5S, della Commissione affari sociali, che ha incontrato alcune vittime del DU o loro familiari .
Concludeva in maniera netta il comunicato stampa dell’iniziativa: «I loro diritti sono affidati alla magistratura e sono 17 le sentenze di condanna per l’amministrazione della Difesa in vari ordini di giudizio. Tar, tribunali civili, corte dei conti di varie zone d’Italia indicano l’uranio come colpevole delle malattie dei militari e condannano l’amministrazione perché sapeva e aveva taciuto i pericoli». I militari, ma anche civili che hanno operato nei Balcani, si sono rivolti agli avvocati per non aver ottenuto dallo stato il riconoscimento della causa di servizio e gli indennizzi per i quali era stato istituito un fondo di 30 milioni con la finanziaria del 2008. Come emerge dalla relazione finale della terza Commissione d’inchiesta sul DU, approvata il 9 gennaio, ad oggi sono pochissime le domande prese in esame e accolte.
DU che appare e scompare
Hadzici, località a 27 km da Sarajevo, è uno dei siti bosniaci maggiormente bombardati dalla Nato con proiettili al DU nell’estate del 1995. Con la fine della guerra, circa 5.000 abitanti, tutti serbo-bosniaci, sfollano nella cittadina di Bratunac che gli accordi di pace di Dayton attribuiscono alla Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia Erzegovina.
Agli inizi degli anni duemila la primaria dell’ospedale di Bratunac, Slavica Jovanovic, aveva rilevato un allarmante numero di morti per tumore tra i cittadini provenienti da Hadzici. «Era stata inascoltata, aveva denunciato che in città i morti per tumore tra gli sfollati di Hadzici erano quattro volte superiore al resto della popolazione» ha dichiarato all’agenzia tedesca Deutsche Welle, Jelina Ðurkovic. La Ðurkovic, che nel 2005 presiedeva la Commissione di indagine governativa della Bosnia Erzegovina sulle conseguenze dei proiettili al DU, sottolinea che nel rapporto della Commissione erano stati inseriti i dati sulle conseguenze del DU e il dettaglio delle azioni da perseguire per risolvere alla radice il problema, ma nulla è stato messo in atto.
Riguardo agli sfollati di Hadzici è intervenuto sulla Deutsche Welle il vicesindaco di Bratunac: «Sono circa 800 i morti per tumore, in base ai dati che abbiamo ricevuto dalle autorità ospedaliere ed ecclesiastiche dove viene registrata la causa del decesso». Di diverso avviso Irena Jokic, a capo del Servizio di medicina sociale dell’Istituto sanitario della Federazione della Bosnia Erzegovina, intervistata da Dnevni List: «Nel 2008 abbiamo analizzato i dati sanitari degli abitanti di Hadzici. Non abbiamo rilevato un aumento significativo di malattie neoplasiche rispetto alla media nazionale». Aggiunge che l’analisi è stata ripetuta nel 2010 e conclude che non è possibile asserire con certezza il nesso tra affezioni tumorali ed esposizione all’inquinamento da proiettili DU ma aggiunge che se con la fine della guerra si fossero avviate ricerche accurate, oggi avremmo la risposta alla domanda.
Anche Beco Pehlivanovic, professore ordinario di Fisica dell’Università di Bihac, ha parlato del problema del territorio contaminato. Sulle pagine del Dnevni Avaz dello scorso 27 maggio ha dichiarato: «Purtroppo non è mai stata fatta un’analisi accurata, perché mancano fondi e attrezzature». E ha aggiunto che sono stati ritrovati di recente resti al DU in territori non inclusi nelle liste Nato. Un problema che si trascinerà nel tempo: «I resti di queste munizioni sono tossici e con un’emivita, cioè tempo di dimezzamento, di circa 4.5 miliardi di anni» ha concluso.
Montagne di scorie
Anche in Serbia il tema degli alti quantitativi di scorie raccolte negli interventi di bonifica dei terreni bombardati nel 1999 è stato al centro dell’attenzione dei media quest’anno. Sono emerse denunce delle associazioni di ex-militari dell’esercito serbo che si trovavano nei pressi dei siti bombardati, di alti numeri di mortalità tra i reduci. Alcuni media, come il quotidiano Politika, informano sull’andamento dei procedimenti giudiziari avviati dai militari italiani.
Il 29 marzo sul media online Srbija Media viene pubblicata la lista delle località bombardate nel 1999 e poi bonificate, rese note dal generale in pensione Slobodan Petkovic.
La mappatura dei luoghi contaminati era stata fatta, subito dopo il conflitto, dall’esercito serbo in collaborazione con altre istituzioni del paese, come l’Istituto di scienze nucleari Vinca di Belgrado. Il direttore dell’ente nazionale di stoccaggio JP Nuklearni objekti, Jagos Raicevic, spiega i motivi: «All’inizio la Nato ci mandò mappe sbagliate, non so se per volontà o meno. Alcuni dei siti da loro segnalati non erano stati toccati dai bombardamenti, e abbiamo trovato proiettili al DU in luoghi che non risultavano nella lista».
Il generale Petkovic racconta che quei territori sono stati ripuliti, i resti di proiettili radioattivi sono stati stoccati e le decine di tonnellate di terra contaminata sotterrate in luoghi posti sotto sorveglianza. Un “cimitero” di DU che allarma: «I resti dei proiettili sono stati inseriti in sacchi e container appositi, poi messi nel deposito di materiale radioattivo dell’Istituto Vinca». Nei sotterranei del palazzo numero 4 a soli 12 chilometri da Belgrado. Risale solo alla fine del 2011 lo spostamento delle scorie in luogo più sicuro, un deposito costruito in base a standard europei, definito dala serba Radio B92 il più grande deposito di materiale radioattivo d’Europa. Slobodan Cikaric – presidente dell’Associazione nazionale contro il cancro – conclude allarmato, sulle pagine di SMedia: «E’ materiale che ha bisogno di miliardi di anni per divenire inerte. In caso di terremoto, alluvione o incendio… siamo a poca distanza dalla capitale, abitata da due milioni di abitanti!».
Ad aprile l’attenzione dei media viene attratta anche da altri due aspetti: il dato nazionale sui malati di tumore e l’alto numero di reduci che, secondo alcune associazioni, si sarebbero ammalati a causa dell’esposizione al DU. Il quotidiano serbo Blic del 14 aprile ha aperto con i dati dell’Istituto per la Salute pubblica Batut: nell’ultimo decennio i malati di leucemia e linfoma sono aumentati del 110%, il numero dei morti per le stesse affezioni è salito del 180%. Sullo stesso giornale Cikaric aggiunge: «Tra il 2010 e il 2011 c’è stato un aumento di tumori solidi del 20%». E prevede un aumento nel prossimo anno: «Il tempo di latenza delle affezioni cancerogene solide da uranio impoverito è di 15 anni, e di 8 per le leucemie e i linfomi. E questi ultimi hanno avuto un picco nel 2006».
Il 2 maggio, il quotidiano Vecernje Novosti apre con il titolo «L’uranio della Nato uccide i veterani». La denuncia è di Dusan Nikolic, presidente dell’associazione degli ex-militari della città di Leskovac: «Solo negli ultimi tre mesi, nella nostra municipalità sono morti più di cento reduci, per lo più militari che hanno operato in Kosovo. Il 95% è morto di cancro». Nikolic spiega che ha scoperto i dati grazie alle denunce dei familiari degli ex-militari deceduti, i quali si sono rivolti all’associazione per cercare di ottenere il riconoscimento della causa di servizio. Secondo Predrag Ivanovic, presidente dell’Unione delle vittime militari di guerra, la situazione dei reduci di Leskovac è stata pompata per interessi interni all’associazione che li rappresenta. Sebbene dichiari, al quotidiano Vesti del 4 maggio, che il problema esiste: «Anche le nostre informazioni indicano che è in crescita il numero dei malati di cancro tra coloro che hanno partecipato al conflitto. Ma purtroppo non abbiamo un numero nazionale esatto, perché ancora oggi nessuno sta facendo una specifica raccolta dei dati».
In sintesi, un panorama di cui non si vede ancora l’orizzonte. Né per i militari italiani – e le centinaia di civili volontari delle organizzazioni umanitarie – né per i cittadini di Bosnia Erzegovina, Serbia e Kosovo.
(www.balcanicaucaso.org)


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