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Oggi, come accade dal 1972 ogni 5 giugno, è la Giornata mondiale dell’Ambiente. È dedicata al cibo e alla necessità di non sprecarlo, tema che il Corriere ha trattato lo scorso 13 maggio con un articolo di Susanna Tamaro. È anche un’occasione per fare il punto su come vanno le cose in fatto di ambiente e clima sul Pianeta: spesso in modo confuso, ma una catastrofe non sembra alle porte.
Il flop del solare in Italia
Sette anni dopo il lancio, si può dire che la politica di sostegno all’energia solare in Italia è stata un flop. Dal settembre 2005 esiste un sistema di incentivi alla produzione da impianti fotovoltaici che ha un costo cumulato annuo di 6,5 miliardi. Investimento massiccio finanziato attraverso una trattenuta sulle bollette elettriche. Il denaro va a coloro che mettono pannelli solari sul tetto o in un campo e convogliano l’energia prodotta alla rete elettrica nazionale: a fine 2011, l’87,9% della potenza così installata proveniva però da società, cioè da investitori nel settore, e non da famiglie, secondo dati del Gestore servizi energetici. C’è chi sostiene si sia trattato di un grande successo: a fine 2012, nella Penisola erano istallati 16 gigawatt solari: più di quelli negli Stati Uniti e in Cina sommati — ha sottolineato un documento recente di Chicco Testa, Giulio Bettanini e Patrizia Feletig. Con una riduzione annua di dieci milioni di tonnellate di anidride carbonica di emissioni.
Il problema è che — calcola lo stesso studio — con 6,5 miliardi di euro avremmo potuto comprare diritti di emissione per un miliardo di tonnellate di gas serra, oppure costruire cento chilometri di metropolitane l’anno con tagli alle emissioni infinitamente maggiori. È che il fotovoltaico è oggi il sistema più costoso di riduzione delle emissioni: l’eolico e l’idroelettrico costano cinque volte meno; investimenti sul risparmio energetico darebbero frutti cinque volte maggiori. «Con appena due anni di incentivi avremmo risolto a livello nazionale la gestione dei rifiuti», dice lo studio. Inefficienza al quadrato, insomma. Il vero risultato degli incentivi è stata la creazione di un settore di business artificiale, in più di un caso infiltrato da organizzazioni criminali, che ha beneficiato pochi gruppi economici e gli esportatori cinesi e tedeschi di fotovoltaico (pesando sulla bilancia commerciale italiana per circa 8,4 miliardi nel 2010).
L’auto elettrica è davvero «clean»?
La gran parte delle politiche occidentali finalizzate a ridurre le emissioni di gas serra e quindi fermare i cambiamenti climatici non hanno avuto successo. Interventi simili a quelli italiani sul solare sono stati effettuati in Germania, dove il governo ha convogliato 130 miliardi di incentivi nel settore: con il risultato (non troppo dissimile da quello italiano) di ridurre, entro fine secolo, il riscaldamento globale di 37 ore — secondo il presidente dell’organizzazione Copenhagen Consensus, Bjørn Lomborg. Gli effetti degli incentivi all’auto elettrica non appaiono migliori. Uno studio norvegese ha stabilito che l’uso di un’auto del genere ha un potenziale di riduzione dell’effetto serra del 10-24% rispetto a un’auto a benzina: ma produrne una comporta emissioni quasi doppie. «Spostamento del problema», lo chiamano gli autori dello studio. Gli Stati Uniti hanno l’obiettivo di avere in circolazione un milione di auto elettriche entro il 2015, grazie a incentivi pubblici per 7,5 miliardi di dollari: con il risultato di ritardare l’effetto serra di 60 minuti. Investimenti enormi per risultati minuscoli.
Ora, in Europa anche il mercato dei diritti di emissione è entrato in crisi. Il Parlamento europeo ha respinto in aprile una richiesta della Commissione Ue finalizzata a salvare questo mercato, asse portante della strategia europea contro i cambiamenti climatici, nel quale vengono scambiati diritti di emissione grazie ai quali un’impresa può emettere gas serra ma pagandoli, cioè a un costo. La Commissione voleva intervenire per alzare i prezzi dei certificati ma il Parlamento, preoccupato più della recessione che del clima, ha respinto l’idea. Anche questa costosa strategia è finita nella sabbia.
Il tema «verde» nella cultura di massa
Nonostante il fallimento di numerose politiche, l’ambiente, l’ecologia, l’effetto serra sono entrati prepotentemente nel dibattito politico e culturale, in Occidente ma non solo. Tra il 2008 e oggi, anni in cui la recessione ha oscurato la determinazione dei governi a intervenire a favore dell’ambiente, sono stati pubblicati nel mondo almeno 150 romanzi che parlano di cambiamenti climatici. È la cosiddetta climate-fiction, cli-fi, segno che il tema è ormai radicato nel discorso pubblico. D’altra parte, la raccolta differenziata dei rifiuti ha fato passi avanti enormi; la discussione nelle scuole e nelle famiglie ha introdotto milioni di ragazzi ai temi dell’ecologia come mai era successo in passato; le iniziative internazionali, compresa la Giornata dell’Ambiente, tengono accesa l’attenzione pubblica; persino l’amore per l’automobile tra i giovani dà segni di cedimento. Rimangono problemi seri, ma i temi ambientali sono entrati nella cultura per restarci.
Il clima cambia: niente panico
Sul fatto che i cambiamenti climatici — il più grande tema ambientale degli ultimi anni — abbiano in qualche modo a che fare con l’attività umana, con l’emissione di gas a effetto serra, c’è ormai un vasto consenso scientifico. Detto questo, più che dare retta ai film catastrofisti e alle analisi da fine della civiltà, è forse opportuno metterli in prospettiva. Molti economisti — citati da Lomborg — calcolano che l’aumento delle temperature sul pianeta avrà un impatto negativo sulla vita e sulle economie, ma solo nel lungo periodo. Sul breve, un grado medio in più avrà probabilmente effetti benefici, almeno in alcune aree del mondo. Secondo un’analisi circolata tra studiosi, gli effetti negativi inizieranno a essere prevalenti nel 2070. Uno dei modelli predittivi più seguiti, elaborato da William Nordhaus all’università di Yale, calcola che il costo del riscaldamento climatico sarà di 33 mila miliardi di dollari nei prossimi 200 anni: su un totale di Prodotto lordo mondiale di 2.200 mila miliardi, cioè l’1,5%. Non poco, ma nemmeno la catastrofe. Soprattutto, qualcosa che ci consente di ragionare e intervenire sul problema senza farci prendere da panico. Ad esempio, ci permette di cambiare strategia rispetto a quella, sostanzialmente fallita, seguita al Protocollo di Kyoto che stabiliva limiti alle emissioni per alcuni Paesi. L’obiettivo era limitare l’aumento delle emissioni globali di gas serra del 36,6% rispetto ai livelli del 1990: il risultato è che sono cresciute del 45,4% e senza Kyoto sarebbero state di solo mezzo punto percentuale più alte, al 45,9% (dati del Copenhagen Consensus). Sforzo enorme per risultati modesti.
Le cose più urgenti da fare subito
Uno dei problemi più urgenti da affrontare nel mondo riguarda l’inquinamento dell’acqua e dell’aria, in particolare nei Paesi poveri e in quelli emergenti, che provoca sei milioni di morti ogni anno, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità. Gli aiuti tecnologici dai Paesi ricchi, in questo caso, possono dare risultati notevoli. Alla fine, però, come per Londra e Milano, lo smog se ne andrà da Pechino quando la capitale cinese sarà più ricca e userà tenologie più avanzate. Le soluzioni migliori per l’ambiente, comprese qualità dell’aria e dell’acqua, stanno infatti nella crescita economica e culturale: senza queste, i poveri indiani continueranno a bruciare copertoni e molti africani concime animale.
Riassunto: nervi saldi, il mondo non sta finendo.


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