Turchia, la minaccia del governo “Siamo pronti a usare l’esercito”
ISTANBUL — Dalle impenetrabili caserme che come sentinelle grigie attorniano la periferia di Istanbul, quasi a proteggere la città con un invisibile manto fatto di carri armati e di soldati pronti a scattare sui tacchi, non si ode ancora un tintinnìo di sciabole. Eppure lo spettro dei militari torna all’improvviso ad agitarsi sulla Turchia. Perché nel confronto infiammatosi all’inizio di giugno tra i dimostranti laici e il governo islamico, è quest’ultimo che ha voluto dare ieri un segnale preciso, fatto di minacce nemmeno troppo velate. «Per fermare le manifestazioni illegali — ha avvertito il vice premier Bulent Arinc — c’è la polizia. Se non basta c’è la gendarmeria. E se ancora non basta ci sono le Forze armate». È la prima volta, dall’inizio della crisi, che le autorità turche fanno un riferimento all’esercito. Ed è paradossale che, in un Paese che dagli anni Sessanta ha vissuto 4 golpe per mano militare, sia oggi un esecutivo di matrice religiosa a chiamare a sua difesa quelli che per la Costituzione sono i garanti della laicità.
Ma è la Turchia di questo momento inatteso a scoprire carte destinate altrimenti a rimanere coperte. Come le frasi incredibili uscite ieri di bocca a Tayyip Erdogan. «Non riconosco questo Parlamento dell’Unione Europea — ha detto il primo ministro accusato da Strasburgo di aver avuto mano pesante nel reprimere la rivolta di Piazza Taksim e del Gezi Park — la Turchia non è un Paese la cui agenda politica può essere definita da altri. La Turchia oggi definisce da sé la sua agenda politica». Affermazioni difficilmente immaginabili da un leader di uno Stato candidato all’ingresso nell’Unione Europea, e ora volte invece a segnare un autogol forse definitivo per le ambizioni comunitarie di Ankara.
Non è finita. Perché in quello che pare un repentino quanto interminabile avvitamento su sé stessi, un altro esponente del governo di ispirazione religiosa, il ministro degli Interni, Muammer Guler, ha annunciato che le autorità stanno lavorando a una nuova legge su Twitter e Facebook contro «coloro che provocano o manipolano il pubblico con false notizie» o «spingono la gente all’agitazione sociale». A questo punto, i fautori dell’ingresso della Turchia in Europa, alfieri e garanti di una società moderna e al passo con lo sviluppo, sono basiti e battono mestamente in ritirata.
La rivolta degli oppositori al governo è continuata ieri in vari centri del Paese. Ad Ankara la polizia ha bloccato un corteo dei sindacati, autori di uno sciopero generale dichiarato «illegale» dalle autorità. A Smirne centinaia di persone hanno marciato protestando. A Istanbul incidenti sporadici tra dimostranti e polizia. Fra le centinaia di persone fermate per i durissimi scontri del fine settimana anche un fotografo italiano, Daniele Stefanini, 28 anni, di Livorno, portato in un commissariato dopo essere rimasto ferito. Colpito alla testa, aveva perso i sensi mentre seguiva i disordini nel centro della metropoli. È stato trovato da un avvocato dei diritti umani in stato confusionale, parte della sua attrezzatura è scomparsa, ma la sua salute non desta preoccupazione. Ambasciata e consolato italiano lo seguono con attenzione e dovrebbe essere rilasciato a breve dopo un interrogatorio. Piazza Taksim è ora di nuovo agibile, anche se con circolazione dei veicoli limitata. Mentre il Gezi Park rimane zona interdetta al pubblico.
Si respira però un clima di intimidazione. «Noi cercheremo le provocazioni sorte sui social media — ha detto Erdogan — noi terremo conto degli alberghi che hanno ospitato i terroristi. Troveremo i responsabili uno per uno». Nel weekend i dimostranti si erano rifugiati all’Hilton e al Divan. Commenta ora Soli Ozel, noto editorialista e professore all’Università Kadir Has: «Stiamo per assistere ai ricaschi che colpiranno quelli che, in un modo o nell’altro, hanno sostenuto i manifestanti. E dunque l’hotel Divan, i suoi proprietari, cioè il gruppo imprenditoriale Koc, medici, avvocati. Temo una caccia alle streghe».
Tuttavia, anche il fronte islamico comincia ad essere frammentato. E c’è chi, come il quotidiano Zaman, un tempo sostenitore di Erdogan, oggi molto freddo nei suoi confronti, pubblica un sondaggio piuttosto indicativo. Metà della popolazione (il 49,9%, la stessa esatta percentuale che ha votato il partito islamico alle elezioni del 2011) ritiene che il governo stia diventando sempre più autoritario. Il 49,7 afferma di non sentirsi libero di esprimere le proprie opinioni politiche. E il 54,4 pensa che il governo stia interferendo sempre di più nello stile di vita degli individui. «Gli avvenimenti degli ultimi giorni — ha detto ieri il premier turco — sono stati un test per la nostra economia e per la nostra democrazia, superato con successo». Se lo dice lui.
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