UNA VITTORIA DI FACCIATA

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AMMETTE che la guerra è perduta e la chiama vittoria. L’annuncio che il governo americano siederà al tavolo del negoziato con la setta dei jihadisti più inflessibili dai quali avrebbe voluto disinfestare l’Afghanistan e il mondo non significa necessariamente che un accordo sia imminente o anche possibile. Ma il valore simbolico di quelle delegazioni che si siederanno l’una di fronte all’altra rappresentando due mondi formalmente inconciliabili è troppo evidente per essere mimetizzabile da formule diplomatiche.
Trattare con coloro che sono costati duemila e quattrocento vite di soldati americani, più altri mille fra le forze alleate italiani compresi, riconoscere dignità di interlocutore a quel famigerato “Mullah Omar”, il leader dei Taliban, che venne deriso e dato per morto dozzine di volte, dice semplicemente che dell’Afghanistan gli Usa vogliono lavarsi le mani. Dopo avere capito, come da più di due millenni, da Alessandro il Macedone a George Bush il Texano hanno dovuto ammettere, che nessuna potenza straniera ha mai controllato e può controllare quella terra e quelle genti.
La fiction della «democrazia esportata» con la forza, del governo di un funzionario come Hamid Karzai che non controllava nulla e persino gli americani irridevano come «il sindaco di Kabul», della afganizzazione della guerra, tutto riproduce in maniera abbagliante la ingloriosa fine dell’avventura nel Sud Est asiatico. Anche allora la exit strategy concepita con il suo leggendario cinismo da Henry Kissinger, fu un exit e basta, un’uscita che soltanto il periodo di attesa concesso da Hanoi sembrò rendere meno umiliante. Agli Stati Uniti sarà almeno risparmiata la vergognosa fuga dell’Armata Rossa richiamata da Gorbaciov in rotta attraverso il passo di Kyber.
Se una speranza esiste di salvare l’impresa afgana da un disastro è che il prezzo di vite straniere quanto locali (anche ieri 17 morti per un’esplosione a Kabul) e il costo in tesoro pubblico — miliardi di dollari e di euro bruciati in dodici anni — è che il sacrificio eviti almeno l’effetto domino che espanda il fanatismo e il terrorismo ad altre nazioni e stati mussulmani barcollanti. Ma questo non dipenderà dagli Usa, dalla Nato, dall’Onu che aveva messo il proprio inutile sigillo ufficiale sull’operazione “Enduring Freedom” nella quale la sola cosa duratura sono stati i morti. Dipenderà dal nemico di ieri divenuto l’interlocutore di oggi. Dalla ragionevolezza degli irragionevoli.
E’ stato dimenticato, nel furore e nel terrore del dopo 11 settembre, che tra il governo degli integralisti di Kabul e gli interessi petroliferi e strategici americani era in corso già un flirt semi-segreto, che culminò nella visita di una delegazione afgana negli Usa. La tragedia dell’aggressione di Al Qaeda a New York e a Washington e il rifiuto del governo di consegnare Osama Bin Laden e di espellere i campi di addestramento precipitarono un’invasione che il Pentagono, e la Forze Armate americane, non sostennero mai. La liberazione dell’Afghanistan e il rovesciamento del regime furono affidate alla Cia, alle forze speciali e all’aviazione americana che martellò il cosiddetto esercito afgano permettendo la facile avanzata dei capi clan dai monti sulla capitale. Il pallino è oggi dove in realtà
è sempre stato. Nelle mani dei Servizi segreti pakistani, l’Isi, a Est dell’Afghanistan, che è sempre stato il burattinaio dei Taliban e dell’Iran, a ovest, che i Taliban ha sempre detestato, nella loro concorrenza alla purezza islamista.
All’Occidente, che si era illuso di essere portatore di una verità irresistibile, quella dei diritti umani che, come diceva Gandhi, sarebbe bene cominciare a praticare anche a casa nostra, interessa andarsene e proteggere qualche interesse economico attraverso oleodotti, gasdotti e terminali verso l’Oceano Indiano. I morti, come sempre, seppelliranno i morti, l’America sventolerà bandierine e nastrini cercando di non dimenticare i feriti e i mutilati. «Chiamatela vittoria e andatevene» suggeriva Kissinger.

 


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