Vita, misteri e (forse) miracoli della primula rossa dei talebani

by Sergio Segio | 21 Giugno 2013 7:16

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WASHINGTON — Nulla è certo quando si parla del mullah Omar. A cominciare dal primo giorno. Raccontano che siano nato nel 1959. Forse. In circostanze drammatiche. La mamma, incinta, è in viaggio a dorso di un asinello tra le province di Oruzgan e Kandahar quando è colta dalla doglie. Si corica in un prato e il futuro Comandante dei Credenti viene alla luce, sotto le stelle del cielo. Non è in salute, rischia di morire. Invece la scampa e la sua sopravvivenza sarà citata dai futuri talebani come un segno del destino.

Tenace, duro, Omar diventa un combattente come tanti suoi fratelli afghani e lotta contro i sovietici arrivati a Kabul per domare la ribellione. Resta ferito diverse volte e perde un occhio a causa di una scheggia. Dove e quando cambiano a seconda delle fonti, probabilmente attorno al 1986. Abituato alla vita spartana, non ha un becco di un quattrino e quando deve trovare moglie è costretto ad arrangiarsi per rimediare la dote. Si vende il suo Kalashnikov e offre il ricavato al padre della sposa. Più facile la storia con la seconda moglie, offerta in dono, da una delegazione venuta a trovarlo quando era già ai vertici.

La carriera di Omar è legata agli studi coranici e ai rapporti con i servizi pachistani. A capo di un gruppo ristretto di studenti-guerrieri si trasforma in un leader carismatico e dal largo seguito. Da quel nucleo di miliziani nasce un movimento che, con la benedizione di Islamabad (e degli Usa), spazza via i signori della guerra afghani e conquista la capitale. Siamo nel 1996, data chiave. Una volta al potere impone un sistema di vita severo, mette al bando tutto. Dalle tv ai giochi. E amplia il rapporto con Osama Bin Laden, considerandolo un ospite e un alleato. Un legame che procede, però, su strade parallele. Il mullah ha i suoi interessi, concentrati nello scacchiere afghano-pachistano. Pensa al controllo di picchi e vallate, è quello il regno. L’America è qualcosa di lontano mentre per il capo di Al Qaeda è un bersaglio da abbattere. Differenze che sarebbe cresciute nel tempo e che avrebbero persuaso Omar — insieme alle pressioni saudite — a scaricare Bin Laden. Gli attentati dell’11 settembre fanno saltare l’operazione e l’intervento americano li ricompatta. Entrambi sono ricercati, Washington mette una taglia di 10 milioni di dollari sulla testa del mullah, peraltro per nulla contento dell’offensiva qaedista. E di certo infuriato per le conseguenze. L’invasione Usa segna la fine del suo regime e lo costringe — secondo la leggenda — ad una fuga precipitosa in motocicletta. Un nuovo miracolo che alimenta la sua fama di leader imprendibile. E introvabile.

Da quel giorno l’ombra di mistero copre il mullah che si fa sentire solo con qualche raro audio. Al punto che non sono pochi coloro che si chiedono: È ancora in vita? Esiste davvero? Qualche comandante talebano, in forma anonima, rivela il suo scetticismo: «Non lo vediamo dal 1999». Altri, specie coloro che sono silurati dagli ordini emessi in nome di Omar, insinuano il complotto: «Si sono impossessati del suo nome e lo usano per dettare le regole al movimento». Chi ha buona memoria ricorda che l’emiro avrebbe sofferto di una forte forma di depressione dopo essere scampato a un attentato costato la vita a due suoi fratelli. Un episodio che forse lo ha segnato per sempre e spinto talvolta a rinchiudersi in se stesso. In realtà il mullah (o la figura che lo interpreta) non smette di governare i talebani insieme all’assemblea, la Shura. Diffidente verso la tecnologia e non solo per motivi religiosi, comunica attraverso alcuni corrieri e un uomo di fiducia, Gul Agha Akhund, il responsabile delle finanze e molto inviso ai suoi «colleghi» col turbante. Mantiene anche la relazione con i qaedisti (lo rivelano le carte di Osama). Ogni tanto arrivano disposizioni precise intervallate da lunghi silenzi che sembrano fatti apposta per tenere vivo il mistero. Nel 2011 voci, poi smentite, sostengono che avrebbe subito un infarto, malanno seguito da un lungo ricovero. Quindi riferiscono del suo arresto da parte dei pachistani che vogliono sbarazzarsi di un personaggio ingombrante. I talebani temono che possano averlo ucciso. Confuse anche le segnalazioni sui possibili nascondigli. Le città di Karachi e Quetta in Pakistan, le zone di confine nell’Est dell’Afghanistan e molti altri posti. Nulla di definitivo.

Le direttive diffuse in questi ultimi mesi hanno fatto discutere i guerriglieri. Il mullah, per prima cosa, ha condannato i rapimenti. Poi ha sollevato dal comando alcuni «ufficiali» che hanno reagito mettendo in dubbio l’autenticità dell’ordine: «Siamo sicuri che sia proprio lui?». Infine si è occupato dei talebani pachistani, con in quali potrebbe innescarsi una faida sanguinosa. Ora tutti si aspettano un segnale sul negoziato con gli americani, trattativa che potrebbe cominciare entro pochi giorni a Doha, Qatar. Un momento chiave che potrebbe riportare Omar a Kabul e magari costringerlo ad uscire allo scoperto.

Guido Olimpio

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