Arabic graffiti. L’altra metà del muro

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Poi arrivò il profumo dei gelsomini tunisini, si sparse in tutta la regione e Sana’a, come Tunisi, come il Cairo, come Manama e poi Tripoli e Damasco tremò. Tawakkol Karman era lì, in prima linea, a guidare la rivolta. Qualche mese dopo, per questo, le assegnarono il premio Nobel per la Pace. Dal palco di Oslo lei lo dedicò «a tutte quelle donne che la storia e la durezza dei regimi sotto cui vivono hanno reso invisibili».

A quasi due anni da quel discorso la lotta per i diritti delle donne nel mondo arabo va avanti, in qualche caso più aspra di prima, e le loro urla hanno trovato una nuova forma espressiva: i graffiti. Nel 2011, quando la regione si svegliò dal torpore che l’aveva avvolta per decenni, il mondo reagì stupito di fronte alla presenza di tante donne in prima fila. Dalle piazze dove protestavano, marciavano, gridavano, le arabe risposero con indignazione. «Di cosa vi stupite se lottiamo per i nostri diritti da più di cento anni?», mi urlò al telefono una furiosa Nawal al Saadawi, madrina del femminismo egiziano. Nawal aveva ragione: se in quei mesi lei e le altre erano in piazza era perché negli anni, a fatica, si erano conquistate diritto di parola, posizioni nella sfera politica, sociale e professionale. Nei mesi successivi donne come Karman e al Saadawi ci hanno dimostrato quanto il ruolo femminile fosse fondamentale in quelle società in mutamento. Quando il vento delle Primavere cambiò, scesero in piazza di nuovo. In Tunisia per fermare un progetto di Costituzione che voleva cancellare il concetto di uguaglianza fra i sessi. In Egitto per dire no alle violenze contro le donne e a un governo che aveva scippato i valori della rivoluzione. In Siria per rivendicare il significato di una rivoluzione civile prima che diventasse, come è oggi, una guerra. Inventarono nuove forme di protesta. Dal seno nudo della Femen tunisina Amina, alle ragazze vestite da sposa nel centro di Damasco. Fino, appunto, ai graffiti, una forma d’arte quasi sconosciuta nel mondo arabo prima del 2011, e che invece dopo le rivoluzioni è diventata popolarissima, una sorta di diario quotidiano per raccontare al mondo quello che accade, di città in città. Sui muri del Cairo, di Tunisi, di Bengasi e persino di Damasco i graffiti sono diventati la voce della rivoluzione. Una voce libera come nessun’altra: come dicono gli artisti che li dipingono «è un modo per parlare alla gente direttamente, senza filtri».
Spesso, in questi mesi, gli autori dei graffiti hanno spaventato i governi. Sono stati arrestati, minacciati o, com’è accaduto in Siria, uccisi dai cecchini. Ma non si sono fermati, e hanno continuato a dipingere, uomini e donne insieme. Nell’ultimo anno le minacce ai diritti femminili sono diventate un tema centrale delle loro opere. In parte perché nella schiera dei graffitari arabi ci sono moltissime donne che hanno scelto di dipingere le storie loro e delle loro compagne di lotta: abusate, arrestate, violentate. Ma soprattutto perché la questione femminile è diventata un termometro fondamentale per giudicare lo stato di salute delle Primavere arabe: «Nessuna rivoluzione trionfa senza l’altra metà del cielo», mi ha detto qualche giorno fa lo street artist egiziano El Zeft prima di tornare a colorare con la sua Nefertiti in maschera antigas i muri del Cairo.


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