Perché il ministro non poteva non sapere

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Più o meno la spina dorsale del Dipartimento della Pubblica sicurezza. Perché – aggiungevano le stesse fonti – «nessuno può pensare che in questa storia possa pagare una persona sola». Con il capo di gabinetto del Ministro, Giuseppe Procaccini, il redde rationem riguarderà dunque anche il segretario del Dipartimento di Pubblica sicurezza, Alessandro Valeri, il prefetto e già capo della polizia pro-tempore Alessandro Marangoni, il capo della Criminalpol Francesco Cirillo, nonché, qualora la relazione Pansa gliene dovesse offrire motivo, il questore di Roma Fulvio Della Rocca, il suo capo della squadra mobile Renato Cortese e il capo dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta.
La dimensione del “sacrificio umano”, il numero di teste da infilare nel cesto che verrà portato in Parlamento giovedì, dipenderà dal loro costo. Perché più si allungherà la lista dei capri da immolare in nome di questa operazione di disperata sopravvivenza politica, più alto sarà il loro rango, più la posizione di Alfano all’interno del Viminale rischia di diventare comunque insostenibile.
UNA RELAZIONE “FOTOGRAFIA”
Non a caso, la relazione del Capo della Polizia Alessandro Pansa e la sua ricostruzione della catena di eventi tra il 28 maggio (data della visita dei diplomatici kazaki al Viminale) e il 3 giugno (giorno in cui, sollecitato dal Viminale, il questore di Roma invia una prima nota con la ricostruzione di quanto accaduto) non conterrà alcuna raccomandazione finale. Un modo per consegnare anche visibilmente all’autorità politica la responsabilità intera delle decisioni che verranno prese. Il capo della polizia – secondo quanto riferisce l’entourage di Alfano – «si limiterà a una esatta radiografia di quanto accaduto. E le decisioni sulle responsabilità dei singoli saranno poi prese dal ministro di intesa con il governo». Un dettaglio che dice tutto di quale tipo di processo è stato imbastito. E sulla sua natura che, evidentemente, deve piegare i fatti a una logica diversa da quella che quegli stessi fatti mostrano con solare evidenza.
I RINGRAZIAMENTI KAZAKI
Non una sola delle circostanze sin qui documentate consente infatti di concludere che il ministro dell’Interno non sia stato informato di quanto accaduto il 28 maggio al Viminale. Fu Alfano a chiedere al suo capo di gabinetto Procaccini di ricevere l’ambasciatore kazako e il suo primo consigliere per raccoglierne le richieste. E che la pratica Ablyazov gli stesse a cuore è dimostrato dalla celerità con cui venne evasa dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza (il blitz è della notte del 28). Pensare che Procaccini abbia “dimenticato” di avvisare Alfano, di dargli alcun ritorno, anche solo verbale, dell’esito dell’operazione non fa soltanto a pugni con la logica o con la circostanza che la fiducia in lui del ministro è stata tale da farne uno dei candidati Pdl alla successione di Manganelli. Ma fa anche a pugni anche con una circostanza documentale. Il 31 maggio, infatti, l’ambasciata Kazaka ringraziò formalmente l’Ufficio Immigrazione della Questura con un fax in cui si plaudeva all’efficienza dimostrata nell’espellere Alma Shalabayeva
e sua figlia. Pensare che quei ringraziamenti siano stati “partecipati” alla sola Questura e non anche al ministro e al suo gabinetto, dove quella storia aveva preso il “la” è semplicemente inverosimile. Insomma, anche la soddisfazione degli amici kazaki
venne taciuta al ministro?
UNA STRANA AMNESIA
Del resto, che nulla funzioni della ricostruzione degli eventi data sin qui dal ministro, è dimostrato anche da un’evidente contraddizione del suo racconto. A suo dire, infatti, Alfano, dopo essere stato insistentemente cercato telefonicamente dall’ambasciatore kazako tra il 27 e il 28 maggio e aver affidato l’incombenza a Procaccini, nulla avrebbe più saputo fino alla telefonata del ministro degli esteri Bonino. In quella circostanza – è certo – la Bonino fa riferimento al Kazakistan. Possibile che, a distanza di soli 4 giorni tra le chiamate e la visita al Viminale dell’ambasciatore di quel Paese e la notizia che gli sta dando la Bonino, nei ricordi di Alfano non si accenda alcuna luce? In fondo, si parla del Kazakistan. Un Paese non proprio difficile da confondere o da farsi passare di mente.
L’INGIUSTIFICABILE INERZIA
C’è infine un ultimo punto che renderà la “punizione esemplare” di qualche testa coronata degli apparati logicamente difficile da sostenere di fronte al Parlamento e all’opinione pubblica. L’inchiesta di Alessandro Pansa fotografa fatti e circostanze ampiamente noti al ministro e al Dipartimento di pubblica sicurezza già il 3 giugno. E dunque, perché – vale la pena di ripeterlo – per 45 lunghissimi giorni, Alfano non ritiene di dover rovesciare il tavolo? Per quale motivo scopre solo dopo 45 lunghissimi giorni che l’intero Dipartimento di Pubblica sicurezza e il suo fidatissimo capo di gabinetto lo hanno tenuto all’oscuro dell’operazione Ablyazov? Per quale motivo, il 5 giugno, Alfano difende pubblicamente «il corretto operato » di quella linea di comando che ora è pronto a spezzare e consegnare al tribunale dell’opinione pubblica quale unica responsabile?
IL RICATTO AL GOVERNO
Consapevole dell’impossibilità logica di aggirare la logica e i fatti, Alfano, non a caso, avvisa che le sue decisioni sull’apparato saranno «condivise con il governo ». Il ministro dell’Interno sa, infatti, che l’unico modo per garantirsi la sua permanenza al Viminale, per non essere divorato di qui in avanti da una struttura che in questo momento vive come un’intollerabile umiliazione il tribunale di fronte a cui è stata chiamata, è fare in modo che un’operazione di così evidente spregiudicatezza politica trovi la complicità anche nel Pd. Soprattutto in negli uomini di quel partito che in questi anni hanno stabilito legami solidi con il Viminale e che al Viminale continuano ad avere ascolto.
Una situazione che, a ben vedere, ricorda politicamente come un calco il luglio del 2001. I fatti del G8 di Genova. Anche allora, un ministro dell’Interno disperato (Claudio Scajola) rovesciò sugli apparati una responsabilità politica che era innanzitutto sua. E lasciò che negli apparati si consumasse un cinico gioco di scaricabarile che voleva la responsabilità di quel giorno in capo a un solo questore e a un singolo reparto della Celere. E questo, nel silenzio delle opposizioni (il Pd) e del Parlamento di allora, che rinunciarono persino a una commissione di inchiesta. Sappiamo come finì Scajola (costretto alle dimissioni due anni dopo). Sappiamo che ne è stato per dieci anni dell’immagine della Polizia.


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