Quell’anomalia tutta italiana di «mister 5%», la stagione dei debiti e degli affari di relazione

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Ormai si registra da parte di molti interlocutori un certo pudore a parlare del «capitalismo italiano». I più saggi invitano a soffermarsi sui grandi aggregati economici come il credito, la manifattura, il lavoro, la tecnologia e a rimandare a tempi migliori la riedizione di una vera narrazione capitalistica. Gli avvenimenti di ieri che hanno drammaticamente riguardato l’intera famiglia Ligresti e il team dei manager di prima fila non possono che rafforzare questa tendenza al downgrading del capitalismo italiano. Con l’aggravante che non se ne può assegnare l’intera responsabilità alla Grande Crisi perché l’itinerario a ritroso di tanti dei suoi protagonisti era comunque segnato. La recessione può averne accelerato la discesa, non l’ha messa in moto.

Salvatore Ligresti ha rappresentato sicuramente un’anomalia dell’alta finanza italiana. Ha goduto di uno status e di un sistema di protezioni sproporzionato rispetto alle sue performance imprenditoriali. Chi anche oggi volesse accollarsi l’improbo compito di difenderlo non potrà certo dire che nel suo business elettivo, il mattone, l’immobiliarista di Paternò sia stato capace di imporre un particolare modello di business oppure che sia riuscito a imporre nel mondo degli affari una visione anticipatrice e moderna o tantomeno che negli anni abbia conferito alle sue aziende una particolare identità. Come abbiamo ascoltato l’intera famiglia pareva non avere cognizione della più elementare differenza che dovrebbe passare tra il portafoglio del papà e i cassetti di una società quotata in Borsa.

Nel capitalismo di relazione — o come mi suggeriscono, nell’affarismo di relazione — don Salvatore è stato capace di nuotare come un pesce. Per un periodo fu chiamato dalla stampa finanziaria «Mister Cinque per cento» per l’abilità nel comprare pacchetti di azioni decisivi per stabilizzare questa o quella compagine societaria. Ma tutto ciò non sarebbe stato possibile senza il legame d’acciaio di don Salvatore con Enrico Cuccia. L’anomalia Ligresti, lo statuto speciale di cui ha potuto godere, si spiegano con il ruolo che ricoprì nella privatizzazione di Mediobanca. Don Salvatore raccontava come Cuccia temesse l’incontro con Bettino Craxi e come si fosse preparato addirittura due versioni del discorso che gli avrebbe fatto, una corta e una più lunga. Don Salvatore raccontava come avesse dovuto, quel discorso, sentirselo recitare innumerevoli volte prima che fosse davvero pronunciato. E come nel giorno dell’incontro lui e Cuccia fossero arrivati un’ora prima dell’appuntamento. Alla fine, in una circostanza che Via Filodrammatici considerava vitale, Ligresti si rivelò preziosissimo tanto che la privatizzazione corse lungo i binari che il banchiere amico aveva predisposto.

L’anomalia prende corpo da questa vicenda e il resto ne è una diretta, perversa e straordinariamente lunga conseguenza. L’establishment si fa carico di includerlo e lo coopta nel salotto buono, le banche si inchinano, gli organismi di vigilanza diventano sordi e ciechi. L’aneddotica che viene rispolverata in queste ore è ricca. Si deve ampliare l’Istituto europeo di oncologia di Milano per sviluppare il progetto Cerba? Si comprano i terreni di Ligresti senza badare a spese e si progetta persino di lanciare un fondo di investimento che avrebbe dovuto raccogliere i risparmi dei cittadini milanesi e che fortunatamente non è mai partito. Si devono ristrutturare i debiti delle sue società accumulati da gestioni allegre e poco professionali? Le banche non battono ciglio e mettono mano al portafoglio. Persino un’emittente tutto sommato locale come Telelombardia in mano a don Salvatore si rivela uno straordinario strumento per la conquista di favori urbanistici.

Ma la colpa più grave di cui si è macchiato l’establishment è quella di aver affidato a Salvatore Ligresti il comando di uno dei principali poli assicurativi del Paese, quello costituito da Fondiaria e Sai. Con il senno di poi ci chiediamo come sia stato possibile che il «sistema» abbia affidato un business prudenziale come gestire una compagnia di assicurazione a un finanziere che aveva già subito due ristrutturazioni del debito. Purtroppo è accaduto e si sono subito mischiati gli interessi della compagnia con quelli dell’azionista di controllo, che per di più esercitava il comando grazie a un risicato 18%. Ed è anche successo che a don Salvatore sia stato consentito di operare da consulente immobiliare della compagnia, non per farne gli interessi e selezionare il meglio del mercato bensì per girare a Fonsai i flop più smaccati. Sembrano scene di una commedia degli equivoci alla Feydeau e invece sono state gesta rese possibili da un’incredibilmente larga «negligenza in vigilando». Ma non fatevi illusioni, di autocritiche per ora non se ne vede l’intenzione.

Dario Di Vico


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