Il «sogno» di un’Italia senza Regioni e Province ma con 36 dipartimenti

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Poi sono arrivate le Regioni, le quali avrebbero dovuto mettere fine a quel modello avviando la stagione delle autonomie e del decentramento. Invece le Province hanno preso a lievitare come la panna montata. Alla nascita delle Regioni, nel 1970, erano 94, tre in più rispetto al 1947. Oggi sono 110. E con loro si moltiplicavano Unioni dei Comuni, Comunità montane, Comunità collinari, Circoscrizioni comunali, Circondari, Aree di sviluppo industriale, Ambiti turistici, Centri per l’impiego… Per non parlare dell’inestricabile groviglio degli enti intermedi fra Comuni, Province e Regioni: dalle aziende sanitarie locali alle migliaia di società pubbliche locali, agli ambiti territoriali ottimali, ai consorzi di bonifica, perfino alle istituzioni scolastiche. E l’autonomia si è trasformata in un delirio. Sovrapposizioni di competenze, duplicazione di funzioni, moltiplicazione di responsabilità senza che nessuno sia davvero responsabile. Il tutto con ben cinque Regioni (o sei, considerando le Province autonome di Trento e Bolzano) a statuto talmente speciale da metterle di fatto al riparo da qualunque condizionamento centrale. Un coacervo talmente complicato che nessuno è oggi nemmeno in grado di dire con esattezza quante siano in Italia le pubbliche amministrazioni: una recente ricognizione le ha stimate in un numero prossimo a 46 mila. Ma oltre una semplice stima non si è ancora riusciti ad andare, appunto. Il che la dice lunga sul disordine prodotto da questa superfetazione incontrollata di livelli amministrativi.

La riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra nel 2001 ha poi contribuito a far impazzire definitivamente la maionese, decentrando poteri spesso in modo irrazionale: basti dire che ogni Regione poteva farsi il bilancio con principi contabili propri, e che fra le materie di concorrenza legislativa fra Stato e Regioni era stato messo anche il lavoro. Come se le aziende del Lazio potessero avere sui contratti relativi agli stessi mestieri regole diverse da quelle della Campania.

Non è un caso, dunque, che proprio dall’inizio del nuovo secolo la spesa pubblica abbia cominciato ad aumentare esponenzialmente: in dieci anni i bilanci regionali sono raddoppiati, senza che alla crescita delle spese in periferia abbia corrisposto una riduzione analoga delle spese dello Stato centrale. E fare marcia indietro ora si rivela complicatissimo, come dimostra la telenovela dell’abolizione delle Province.

Parte da qui un’idea che la Società geografica italiana aveva già presentato all’inizio di marzo, provando a immaginare un’Italia con una articolazione territoriale completamente diversa. Senza più le 110 Province (109 al netto della valle d’Aosta, dove Provincia e Regione coincidono), né le 20 Regioni (21, considerando le Province autonome di Trento e Bolzano): al loro posto 36 dipartimenti regionali più omogenei per radici storiche e fondamentali economici. Qualche esempio aiuta a capire. L’attuale Piemonte verrebbe suddiviso in tre Regioni più piccole: una comprendente i territori di Asti, Cuneo e Alessandria, la seconda coincidente con la Provincia di Torino e la terza ottenuta dall’unione di Novara, Vercelli e la Valle D’Aosta. Ancora. Le Province di Brescia, Verona e Mantova dovrebbero dare luogo a una piccola Regione a cavallo fra l’attuale Lombardia e il Veneto. Così come al Sud si unirebbero Campobasso e Foggia. Mentre La Spezia confluirebbe nella piccola Regione tirrenica composta da Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara. Gli unici dipartimenti a coincidere con gli attuali confini regionali sarebbero Marche, Umbria, Abruzzo, Basilicata, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. Facile immaginare le possibili reazioni: non troppo differenti, supponiamo, da quelle che hanno accolto, impallinandola, la proposta di accorpamento delle Province partorita dall’ex ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi. Pensate alla fusione fra Pisa e Livorno. Con Lucca, poi… E l’integrazione fra Firenze e Prato? Ci sono voluti decenni per dividere le due Province e ora di nuovo insieme, per giunta con Pistoia e Arezzo. Come spiegare poi a viterbesi e reatini che il loro destino sarebbe di confluire in una microregione con Roma? O ai cremonesi che la via maestra li porterebbe nelle braccia di Parma e Piacenza?

Niente più che una simulazione, ovvio. Con zero speranze di fare breccia nel marasma legislativo, dove, ancora prima di vedere la luce, il disegno di legge che svuota le Province cui sta lavorando il ministro Graziano Delrio non ha vita facile. Ma con l’aria che tira può essere già considerato un successo, per la Società geografica ora presieduta da Sergio Conti, che la proposta venga esaminata oggi pomeriggio da un «tavolo tecnico» al ministero degli Affari regionali con il sottosegretario Walter Ferrazza, candidato senza fortuna alle ultime politiche con il Mir di Gianpiero Samorì e poi ripescato al governo, nonché tuttora sindaco di Bocenago, 400 abitanti in Provincia di Trento. Il quale si ritrova fra le mani un autentico scoop. Per la prima volta, da quando esistono le Regioni, sul tavolo del governo c’è una proposta che sia pure come caso di scuola ne mette in discussione la loro stessa esistenza: sulla base di quell’assunto del famoso geografo Calogero Muscarà che nel 1968, un paio d’anni prima che venissero create, le definì «una conchiglia vuota sul piano identitario». Un guscio che però negli anni si è riempito di potere e soprattutto denaro. Tanto denaro: ogni anno le Regioni gestiscono più di 200 miliardi di euro. Oltre un quarto di tutta la spesa pubblica.

Sergio Rizzo


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