“Per Israele e Palestina questa è l’ultima occasione Non possiamo sprecarla”
GERUSALEMME — «Siamo due popoli immersi nella violenza e nell’odio. Ma non si può vivere sempre con la spada in mano, la pace è l’unica via. Israeliani e palestinesi devono capire che solo con un sacrificio si può ottenere qualcosa in cambio». David Grossman è incline all’ottimismo. Romanziere, intellettuale e punto di riferimento per la chiarezza del suo pensiero, ha perso un figlio nella guerra contro Hezbollah del 2006. Ora, dopo la ripresa dei negoziati di pace, lo scrittore israeliano esprime un sentimento di speranza.
Come viene percepita in Israele la ripresa delle trattative con i Palestinesi?
«C’è molto timore, quasi la paura di sperare dopo tanti tentativi falliti, tanta violenza scatenata fra i due popoli, dopo che i due leader e i due popoli sospettano di ogni passo compiuto dalla parte opposta e ogni mossa intrapresa dall’altra parte viene percepita come un espediente pubblicitario, un inganno, una trappola. E’ davvero deprimente vedere che ciò che sarebbe potuto essere un momento di speranza per un nuovo inizio viene vissuto come i primi attimi di un combattimento all’ultimo sangue fra due lottatori».
E tuttavia, sembra che lei provi una qualche speranza. Su che basi?
«La speranza è dovuta al fatto che mi pare che la pressione internazionale cominci a fare effetto su Netanyahu. Mi sembra che Netanyahu e John Kerry abbiano deciso adesso di agire in maniera determinata, coraggiosa e di non permettere alle due parti di sfuggire ancora una volta ad un incontro diretto, faccia a faccia. Gli Stati Uniti sono più decisi, l’Europa è più decisa. Ritengo che la risoluzione dell’Unione Europea di boicottare i prodotti delle colonie avrebbe dovuto essere presa già vent’anni fa, ma è bene che alla fin fine sia arrivata e penso che abbia scosso nel profondo Netanyahu e non pochi membri del suo governo. Credo che sia necessario tenere presente un fenomeno ricorrente in Israele negli ultimi 35 anni. I governi sono più estremisti del popolo. E’ un fenomeno un po’ strano».
Nei partiti al governo, però, ci sono anche posizioni molto estreme.
«E’ vero. I membri degli organi elettivi sono molto estremisti, ma la maggioranza della popolazione, secondo sondaggi i cui risultati sono costanti, può accettare in determinate condizioni, una soluzione che comporti la separazione dai palestinesi. Mi sembra che Netanyahu cominci ad interiorizzare
questo fatto. E’ senz’altro possibile che questa iniziativa non porti a nulla: di fatto ci sono molte cause di timore e poche cause di speranza. Entrambe le parti nutrono enormi sospetti reciproci, i due leader sanno che alla fine dovranno prendere decisioni molto dolorose, che potrebbero essere pericolose per loro anche a livello personale. Non so quale possa essere il fato di un leader palestinese che ponga la sua firma alla rinuncia al “diritto al ritorno”. Noi, da parte nostra, abbiamo già passato un attentato ad un leader che ha osato toccare alcuni dei “sacri valori” delle destre.
Ci sono gli uomini giusti a guidare questo negoziato?
«Non c’è ancora la sensazione che i due leader siano in grado di arrivare alla profondità necessaria per terminare il conflitto. Tuttavia, alle volte il processo negoziale ha una sua propria dinamica: generalmente si comincia da posizioni molto decise, determinate, poi alla fine delle trattative ci si ritrova in
punto molto diverso. In questo momento, sia gli israeliani che i palestinesi sentono che si richiedono loro grandi sacrifici, ma forse alla fine si renderanno conto che ricevono anche qualcosa in cambio, che la loro vita è migliore. Queste sono possibilità che oggi sembrano totalmente frutto di immaginazione, per due popoli immersi fino al collo nella violenza e nell’odio. Quindi, per il momento, consiglio a tutti di attendere».
Ai pessimisti, e sono tanti, cosa risponde?
“In questi giorni, da ogni stazione radio non sento altro che persone che tentano di spiegarmi perché la cosa non può riuscire. Io mi ribello a questo approccio, retaggio delle destre, e penso che sia offensivo, umiliante nel profondo senso umano del termine, poiché significa che abbiamo perduto ogni speranza e che siamo destinati a vivere e a morire con la spada in mano. Ma chi vive con la spada in mano, alla fine fallirà e perirà di spada. Per me, quindi la pace resta una profonda necessità vitale dei due popoli, nonché l’unica — ripeto — l’unica strada loro aperta per cominciare un processo di risanamento in quanto popoli, società e culture».
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