L’IMMOBILITÀ DELLA POLITICA

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Ecco cos’è non la politica liquida che si sperde e che tanti decantano, ma la resilienza di una materia dura che resiste, e sotto gli urti rimbalza. «Le parrocchie, le scuole, le istituzioni sono fatte per uscire fuori (…). Se non lo fanno diventano una Ong e la Chiesa non può essere una Ong».
Se il signor Sposetti sapesse quel che dice, sul partito democratico di cui è tesoriere dal 2001, non sosterrebbe senza arrossire: «Sarà la fine di tutto, se i giudici condannano Berlusconi: il Pd non reggerà l’urto e salterà come un birillo». Saprebbe la differenza che c’è tra il resiliente e l’acqua che si chiude intatta sulla barca che affonda. Fra l’intelligenza e quella che lui stesso chiama la «fase fessa» del proprio partito e della democrazia italiana.
Qualche giorno fa l’aveva detto anche Obama: che il suo paese è tuttora malato di razzismo, che l’Unione americana non sarà mai perfetta ma meno imperfetta può divenire. Che il divenire è tutto. Che tra gli americani, e non solo tra i loro politici, deve iniziare un esame di coscienza, dopo la mancata condanna di chi nel febbraio 2012 ammazzò a bruciapelo un disarmato diciassettenne afro-americano, Trayvon Martin. Che deve infine cominciare una «conversazione sulla razza», in grado di vedere nell’Altro o nel Diverso «non il colore della pelle, ma il contenuto del suo carattere». Altrettanto in Germania: fin dal 1999, quando Schröder divenne Cancelliere, fu cambiata la legge sulla concessione della nazionalità, adottando lo ius soli accanto allo
ius sanguinis cui per secoli i tedeschi erano rimasti aggrappati. Il governo socialdemocratico-verde capì che, nella globalizzazione, l’omogeneità etnica era divenuta bieco anacronismo.
Non così in Italia, dove in politica regnano le cerchie scostanti, i clan che fuggono l’aria aperta, inaccessibili e sordi al resto della cittadinanza e al mondo che muta. Vent’anni di diseducazione civica, di leggi infrante, di immunità, hanno asserragliato politici e partiti nelle cantine dei propri clericalismi: immobili, disattenti alla società dove «si fa casino», si disturba e si fa baccano.
Sono diocesi incapaci di correggersi, di entrare in quella che papa Bergoglio chiama l’onda della rivoluzione copernicana.
Cos’è per lui rivoluzione? «Ci toglie dal centro e mette al centro Dio. Apparentemente sembra che non cambi nulla, ma nel più profondo di noi stessi cambia tutto. La nostra esistenza si trasforma, il nostro modo di pensare e di agire si rinnova, diventa il modo di pensare e di agire di Gesù, di Dio. Cari amici, la fede è rivoluzionaria e io oggi ti chiedo: sei disposto, sei disposta a entrare in quest’onda rivoluzionaria?». E dove nasce l’onda? «Nelle periferie esistenziali», dove l’indifferenza dilaga. E come mai s’è andata formando l’indifferenza? «Vedete, io penso che questa civiltà mondiale sia andata oltre i limiti, perché ha creato un tale culto del dio denaro, che siamo in presenza di una filosofia e di una prassi di esclusione dei due poli della vita (gli anziani, i giovani), che sono le promesse dei popoli». Sui giovani ha aggiunto: «Abbiamo una generazione che non ha esperienza della dignità guadagnata con il lavoro».
Di simile trasformazione avrebbe bisogno la politica, affetta dall’isterico ristagno che è la stasi: non del liquido Renzi, ma della dura e antica materia che fa fronte alle scosse. Non di un Tony Blair che s’assoggetti al culto del denaro, alle guerre di Bush jr., e vinca uccidendo la sinistra. La destra ha le sue impassibilità morali, e non stupisce. Ha da difendere privilegi, clan, impunità: in particolare quella del proprio padre- padrone, senza il quale teme di morire. Vivrà anche se il capo, condannato per frode fiscale, estromesso dal Senato, comanderà da fuori: mentre i Democratici no, cadono come birilli a forza d’inconsistenze e tradimenti.
Il Pd è cresciuto in questo clima e ne è stato contaminato (non è vero che è stato troppo antiberlusconiano: il ventennio è stato tutto all’insegna della compromissione) ma tanti elettori e alcuni aspiranti leader sentono che bisogna far casino se non si vuol restare fessi. Perché se il Pd insiste nell’autodistruzione e nell’immobilità, chi guiderà coalizioni diverse, se sarà necessario, e cosa andrà messo «al centro»?
Qualche sera fa, il 26 luglio a una festa dei Democratici a Cervia, il ministro Kyenge, già chiamata orango non da un leghista qualunque ma dal vicepresidente del Senato Calderoli, è stata fatta bersaglio di un lancio di banane. Nel Pd: breve indignazione, presto dimenticata. È stata breve anche con Calderoli. Nessuno ha avuto l’ardire di rispondere: non entreremo in Senato, i giorni in cui a presiedere sarà lui.
Non sono mancati, come è giusto, gli elogi della reazione ironica di Cécile Kyenge (“Che spreco di cibo! Uno schiaffo alla povertà”). «Non c’è miglior modo di contrastare chi si sente razza superiore, che farlo sentire un cretino e mostrarlo al mondo», scrive Alessandro Robecchi. Ma i provocatori fascisti hanno potuto fare irruzione senza problemi, e i servizi d’ordine che alzino barriere non esistono da tempo. L’ironia è ignominia per un partito che seppe resistere, in ore gravi della storia italiana. L’esclusione va combattuta, assieme al razzismo. E che si aspetta per una legge sull’omofobia? Anche qui ascoltiamo Bergoglio, sull’aereo di ritorno da Rio: «Le lobby tutte non son buone. Ma se una persona è gay, chi sono io per giudicarla?».
Basta un papa, per la rivoluzione copernicana che s’impone? Dante era convinto che occorresse il potere sovrano dell’imperatore, perché il pastore della Chiesa «rugumar può» – può ruminare le Scritture – ma non guidare laicamente la città dell’uomo. È una saggezza che vale ancora. Ma è difficile quando l’autorità laica non cura il bene pubblico ma solo i privilegi e il potere dei propri potentati. L’opposizione della dirigenza Pd a primarie aperte per la futura guida del Pd (e per la candidatura alla premiership) è segno di quest’otturazione di spazio, attorno a un centro che è stato tolto. Anche qui: meglio perdere e salvare la parrocchia, senza avventurarsi in alto mare alla ricerca non solo dei cari iscritti estinti ma degli elettori vivi.
Meglio il Regno della Necessità di Enrico Letta, che farà magari alcune leggi buone con alcuni buoni ministri ma è pur sempre figlio delle larghe intese che gli italiani non volevano. Né si può dire che Letta sia solo lì per fare una legge elettorale e risparmiarci immediati crolli economici. Il cantiere che ha messo in piedi prevede una vasta revisione della Costituzione. E con chi si trova a riformarla se non con un capo del Pdl per cui le larghe intese sono non un provisorium ma una pacificazione, dunque un appeasement, un salvacondotto. Come riscriverla se non con un Parlamento di nominati, che la Cassazione ha già dichiarato non legittimo, visto che potenzialmente incostituzionale è la legge elettorale da cui discende.
È una gran fortuna che il Vaticano non si intrometta nella città dell’uomo. Ma l’ipocrisia diminuirebbe un po’, se la politica venisse scossa, rimessa al centro, e, parafrasando Bergoglio, qualcuno chiedesse di non farne un frullato, perché «c’è il frullato di arancia, c’è il frullato di mela, c’è il frullato di banana, ma per favore non bevete frullato di politica». Anche la politica è intera, come la fede, «e non si frulla».


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