Aleppo, al fronte con il velo fino ai piedi ecco le donne che combattono contro Assad

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ALEPPO — Rihad si siede con il fucile tra le gambe, la canna puntata sul tetto mentre giocherella con il mirino. «Sto facendo esperienza, siamo state su diversi fronti», dice con voce bassa e tesa dal divano di un rifugio sicuro sul fronte di al-Sahur, accanto all’autostrada dell’aeroporto di Aleppo. Fuori si sente il rimbombo di un proiettile sparato dalla porta e lei, vestita di nero da capo a piedi, fino agli occhiali da sole, non fa una piega. Ha sparato anche dei razzi, spiega, ma non sa se ha ucciso qualcuno. Immagina che qualche tiro sia andato a segno.
Questa donna di una trentina d’anni fa parte dell’unica katiba (brigata) esclusivamente femminile nella “capitale” del Nord della Siria, dove i combattimenti contro l’esercito leale a Bashar al Assad vanno avanti dal luglio dell’anno scorso, quando i ribelli avviarono l’offensiva per prendere la città. Gli aerei del regime sorvolano costantemente Aleppo, dove subito dopo la chiamata del muezzin all’iftar, la cena che rompe il digiuno del Ramadan, la gente trema per i bombardamenti.
Gli scontri continuano anche a meno di cento metri di distanza, tra soldati leali ad Assad e insorti. In questi giorni Rihad festeggia il suo primo anno da miliziana, da quando arrivò in città durante lo scorso Ramadan. Un anno passato a lottare faccia a faccia contro militari addestrati, come le oltre 150 donne combattenti che imbracciano le armi ad Aleppo, tutte comandate da Um Fadi. «La chiamiamo Mamma», sottolinea Rihad.
La sua fama la precede, almeno nella sala dove i miliziani del fronte che controlla la zona aspettano il suo arrivo. Um Fadi si siede accanto a due “guardaspalle”. «Lottavo con uomini di tutti i gruppi», dice la donna, 43 anni. «Tutti mi conoscono».
Nel giugno del 2011, dopo che la protesta pacifica, in seguito agli attacchi dell’esercito siriano contro i cittadini che manifestavano, si era trasformata in una guerra civile che ha già fatto più di 93.000 morti (secondo l’Onu), Um Fadi, casalinga con dieci figli (l’ultimo ha appena un anno), decise di andare a Daraa, il cuore delle rivolte contro il governo di Damasco, insieme a suo fratello. «Non potevo più sopportare», dice la Mamma. «Non è facile vedere questa situazione, la gente che muore, e non fare nulla; se non è il figlio mio, è quello del mio vicino».
«Sono andata al fronte senza nessun addestramento», ride, «e ho cominciato trasportando munizioni da una parte all’altra ». Um Fadi ancora non sparava, ma in prima linea accumulò abbastanza grinta da zittire suo fratello, combattente nelle fila di Gorabat as-Sham, quando la interrompe. «L’ho vista con un fucile e se la cavava talmente bene che sono andato a prendere un’arma più grande», scherza il veterano Taha, «non sarei potuto essere più orgoglioso».
Quando un anno dopo tornò a casa, ad Aleppo, per prendere parte all’offensiva, si era già fatta un nome e decine di volontarie cominciarono a bussare alla sua porta. «Io le incoraggio soltanto, non le incito: sono loro che vengono da me».
La katiba è nata per una necessità logistica. «Avevamo bisogno delle ragazze per registrare le donne», osserva Abu Musafar, capo del fronte al-Shabab al-Suriye, insediato nel quartiere di al-Sahur. Così le donne, dalle cucine della retroguardia, dove preparavano il rancio per figli, mariti e fratelli, saltarono ai posti di blocco di cui ancora sono disseminate le strade della zona controllata dai ribelli, «per perquisire gli shabiha (i sicari del regime) che vanno in giro travestiti da donne», secondo Um Fadi.
Il loro abbigliamento (hijab e abaya fino alle caviglie) richiama l’attenzione, lontano com’è dalle simil-divise militari di altre combattenti come le miliziane curde delle Ypg, le Unità di protezione popolare schierate lungo la frontiera con la Turchia sulla strada per Raqqa, nel Nordest del Paese. Anche le donne sono in guerra. «Fanno parte dell’Esercito siriano libero», dice Abu Musafar, «non devono aver paura e restarsene chiuse in casa».
Rihad è stata una delle prime ad arruolarsi: era appena arrivata da Homs, dove aveva sostenuto la rivoluzione facendo lavoro umanitario fino a quando non aveva perduto tutta la sua famiglia. «Eravamo cinque maschi e sei femmine, sono tutti morti», racconta. Rimasta sola, decise di imbracciare le armi. «Sono venuta a combattere ad Aleppo e ho conosciuto la Mamma», racconta.
Il suo caso non è insolito. Rabia, 27 anni, ha perso suo marito a Bab Amr, uno dei punti in cui i combattimenti sono più violenti a Homs, lungo la strada che dalla capitale siriana porta fino a Tartus, sulla costa a maggioranza alawita (la setta a cui appartiene anche la famiglia del dittatore Assad). «Combattevamo insieme», dice. Questo prima di trovare suo figlio di due anni mezzo morto nel letto per lo sparo di un cecchino appostato di fronte alla sua finestra.
«Quando sono arrivata», continua Rihad, «ho scoperto che tutti i combattenti erano miei fratelli e tutte le ragazze erano mie sorelle. «Ho anche una mamma», dice alludendo a Um Fadi, «mi hanno dato tutto», anche un marito con cui divide la casa e il fronte.
Ma il ricordo è doloroso. «Mi manca il mio quartiere, la mia terra, la mia casa e i miei vicini», singhiozza sotto un velo nero che le copre tutta la faccia, «mi manca la mia famiglia, spero di tornare a Homs e pregare nella moschea di Khaled bin el Walid (dal nome di uno dei conquistatori della Siria musulmana e centro delle proteste nella città, bombardata nel 2012)». La sua crociata rivoluzionaria si è trasformata in vendetta. «Spero che il regime cada e che la Siria sia libera», rivendica, «tanto grande quanto la sofferenza della Siria è il mio odio contro Bashar».
(Traduzione di Fabio Galimberti)


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