Cuba, prove di capitalismo

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L’AVANA. LA RICETTA per far funzionare il socialismo cubano è nascosta fra i fregi di centenarie macchine per cucire e le strisce colorate dei costumi per i praticanti della Santeria Yoruba, in un laboratorio tutto bianco dell’Avana vecchia. Guillermo Rodriguez Noris, titolare della sartoria di articoli religiosi Oshun Lade, è un business man di nuova generazione, un imprenditore con le idee chiare: «Noi restiamo socialisti. In fondo la differenza tra comunismo e capitalismo è solo nella distribuzione dei redditi». Poco importa se la sartina lì accanto prende 160 pesos, meno di otto dollari, mentre lui e sua moglie ne incassano tremila. Rodriguez mette subito le mani avanti: «No, no, questi sono conti incompleti: noi dobbiamo anticipare i soldi, magari i clienti ci saldano in ritardo, c’è da pagare le tasse…».

Il governo dell’Avana lo garantisce già sulla strada dell’aeroporto con cartelli giganteschi: «Le nostre riforme vogliono dire più socialismo», parola del presidente Raúl Castro. Il messaggio è chiaro: Cuba non ha nessuna intenzione di vendere l’anima, gli accenni timidi di economia di mercato approvati nel sesto congresso del Partito comunista non saranno un passo verso la dannazione. E’ solo necessaria qualche correzione di rotta, visto che per ora l’Avana deve fare affidamento sulle rimesse dei cubani all’estero per pagare in valuta straniera l’ottanta per cento delle risorse alimentari, per sfamare la popolazione. La responsabilità di dirlo a voce alta se la prende il vicepresidente Marino Murillo, guida della commissione per le Riforme. Murillo, ex ministro dell’Economia, è una figura in rapida ascesa. Ha indicato chiaramente la direzione, anche se i dettagli sono ancora poco chiari. «Non cambia la struttura della proprietà», dice Murillo, «ma solo il modo di gestirla». Il “come” sarà precisato man mano, con leggi ancora da varare, come il nuovo Codice del Lavoro, già pronto ma ancora da sottoporre al giudizio delle assemblee di base.
Il passo più significativo è l’accelerazione su quello che all’Avana si chiama “settore privato”. Sono circa 430 mila lavoratori “per conto proprio”, che non prendono lo stipendio dallo Stato. La cifra è ingannevole, perché non chiarisce quanti “cuentapropistas” siano semplici dipendenti e quanti, invece, piccoli imprenditori. In prima fila ci sono le stelle di spettacolo e sport: Javier Sotomayor, recordman mondiale di salto in alto, ha aperto un bar sportivo. Un nazionale di pallavolo ha inaugurato un ristorante italiano. Hugo Morejon, divo del salsa, un’officina. La dimensione delle aziende non statali, per ora, non può che essere molto limitata: le esenzioni fiscali sono riservate a chi assume non più di cinque dipendenti. E’ un inizio timido, ma significativo per la società cubana. «Il lavoro è stimolante. Ma ci capita persino di essere svegliati durante la siesta per risolvere problemi», si stupisce Olga Hernandez, che ha aperto un ristorante nel giardino di casa chiamandolo La Moraleja, “La morale”, cioè la prova che i sogni alla fine si realizzano.
Sullo sfondo delle aperture, il ritornello è sempre lo stesso: l’interesse privato va bene, purché conviva con quello pubblico. Sul lungomare, i tassisti si fanno largo fra gli sciami di ragazzi a passeggio, in cerca di turisti. Raúl, che guida una Nissan di stato, ammette che il suo è un salario basso, ma almeno è sicuro, anche in assenza di clienti. Yuri, che da poco ha investito i risparmi di famiglia in una Chevrolet del 1952 con due milioni di chilometri e un motore Mitsubishi nuovo, è contento di lavorare solo per sé stesso. «Certo», sorride, «a volte è proprio faticoso ».
Per ora gli esperimenti di mercato sono boccate d’aria per i disastrati conti dell’isola, in attesa che il nuovo Modello Economico Cubano faccia partire la necessaria accelerazione sui settori più deboli, l’agricoltura e l’edilizia. Il 70 per cento dei terreni agricoli, di proprietà statale, è già in concessione a cooperative private, che pagano con una congrua fetta della produzione. Ma non basta, perché la produttività è troppo bassa: ci vorrebbero tecnologie, macchinari, investimenti. Chissà, se gli Stati Uniti rimuovessero l’embargo imposto negli anni Sessanta… Il “Bloqueo” è ormai solo un cavallo di battagli dei repubblicani, intenzionati a conservare i voti dei più anticastristi fra gli esuli cubani della Florida. Ma più che una decisione politica, è una rappresaglia, che negli anni ha finito per rinsaldare il senso di appartenenza dei cubani e ha persino fatto sorvolare a molti le mancanze del socialismo. Forse, senza l’orgoglio di essere soli contro il gigante americano, sarebbero in pochi a parlare del governo chiamandolo semplicemente “la revolución”.
Alla prospettiva di una situazione politica più distesa è legato anche il progetto di Mariel, la zona di libero commercio nel nord dell’isola, con il grande porto poco lontano dalla costa statunitense, progettato con il sogno che finalmente l’embargo finisca e la zona diventi un centro di investimenti internazionale. L’Avana cerca freneticamente stranieri disposti ad investire. Offre stabilità politica, sicurezza, e soprattutto manodopera con alto livello di istruzione. In cambio, chiede sostegno finanziario, tecnologie, know how, compatibilità ambientale. La prima a cercare partner è l’industria farmaceutica, particolarmente robusta grazie alla necessità imposte dall’embargo e celebrata persino da “Nature”, ma ormai arrivata al massimo delle possibilità in regime di quasi autarchia. «Siamo all’avanguardia nelle biotecnologie, abbiamo individuato vaccini preziosi e li vendiamo a mezzo mondo. Adesso dobbiamo trovare soci che investano», dicono alla Bio-FarmaCuba, che raccoglie 130 istituti e laboratori di ricerca.
Ma per ogni parola di apertura, c’è una precisazione: non ci sarà un tradimento degli ideali. «Nessuno deve restare indietro», sottolinea Ana Teresita Gonzalez, viceministro degli Esteri. E’ vero, tra le riforme annunciate da Murillo, c’è anche il progetto di chiudere le azienda statali non competitive. I lavoratori, però, verranno semplicemente “trasferiti” in altri settori. In qualche modo, sembra che il governo dell’Avana abbia studiato per bene la storia del socialismo. Qui, lascia capire, non succederà quello che è successo con il collasso dell’Unione sovietica, la svendita selvaggia dei beni collettivi, la povertà della maggioranza e la ricchezza arrogante di pochi. Anche se Fidel Castro è anziano e malato, anche se Raúl ha preso l’impegno di lasciar presto spazio alle nuove leve, non c’è fretta per il capitalismo. Si può affacciare, ma è meglio se resta fuori della porta. Le aziende stranieavanguardie re sono benvenute, ma alle regole locali.
Insomma, per ora niente globalizzazione, McDonald’s e Starbucks non si affacceranno presto sul lungomare Malecón. Questa logica vale anche per il centro storico dell’Avana, patrimonio dell’umanità tutelato dall’Unesco, in fase di restauro grazie agli aiuti internazionali (con una quota anche della Cooperazione italiana): nessuno verrà sfrattato per lasciar spazio alla speculazione. Qui l’alfiere della nuova imprenditoria è Gilberto Valladares Reina, per la gente del quartiere “Papito”, cioè “paparino”. Valladares è un artista dei capelli: dalle acconciature creative è passato a fondare un museo della Barberia, un parco giochi per bambini ispirato a forbici e rasoi, una scuola per acconciatori battezzata “Fino all’ultimo capello”. Lo stato non gli fa pagare l’affitto dei locali, in un palazzo del 1915 pieno di stucchi e dipinti a olio, in cambio lui insegna il mestiere ai ragazzi. «Presto aprirò una scuola di gastronomia. Mi piace lavorare per il mio Paese», dice Papito. E no, non ha nessuna tessera del partito comunista.
Fra i vicoli e le piazze della Avana vieja, la convivenza dei due mondi è semplice, perché le del capitalismo sono limitate ai banchetti di libri antichi, con opere di Victor Hugo rilegate in pelle e album di figurine sulla Rivoluzione cubana, in mezzo ai ritratti delle icone nazionali: il Che, Compay Segundo, Ernest Hemingway. L’atelier degli orologiai di lusso Cuervo y Sobrinos propone cinghiette originali a 270 dollari, e appena qualche isolato più in là, gli scaffali spogli della cartoleria di stato, con una rara Pelikan e polverose confezioni di carta da lettere, ricordano quanto ancora sia lunga la strada verso l’abbondanza.


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