Dagli ordini dei kazaki al blitz le tre grandi bugie di Alfano sull’espulsione della Shalabayeva

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CINQUANTA giorni di silenzio e dodici di frenetico maquillage della verità del ministro dell’Interno Angelino Alfano sul caso Ablyazov consegnano all’opinione pubblica una vicenda in cui si contano almeno tre macroscopiche menzogne.

CHE solo un cinico e dichiarato ricatto sul Governo ha impedito che trovassero un naturale corollario in un voto di sfiducia parlamentare. Ma che la forza incoercibile dei fatti rende impossibili da elidere. Che lungi dunque dal chiudere l’affaire ne amplificheranno di qui in avanti la sua forza destabilizzante e il suo potenziale di ricatto. Tre menzogne che conviene mettere in fila e che sono state l’unica risposta di Alfano alle domande che Repubblica gli ha rivolto quando questa vicenda ha avuto inizio.
1. “NON SONO STATO INFORMATO”
«Non sapevo. Non sono stato informato ». È la prima, categorica quanto generica affermazione che il ministro dell’Interno abbozza e dietro cui si trincera. A suo dire, apprende della catastrofe “Ablyazov” e di ciò che ne è seguito (l’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua di 6 anni) solo il 31 maggio, o forse il primo giugno, o forse no, il 2 (le versioni che ha dato sono tre), da un colloquio con il ministro degli esteri Emma Bonino. E nell’apprenderla nulla gli sovviene ripensando a «tre telefonate» dell’ambasciatore kazako Yelemessov cui non avrebbe risposto solo pochi giorni prima, il 28 maggio. Chiede quindi spiegazioni al capo della Polizia Alessandro Pansa con toni tra l’accorato e lo sgomento («Dimmi, Alessandro, come è stato possibile che non abbia saputo?») . Si accontenta di una prima spiegazione (quella ricevuta da un appuntino della Questura del 3 giugno) e quindi manda serenamente avanti a metterci la faccia il ministro di giustizia Anna Maria Cancellieri («Le procedure di espulsione della Shalabayeva e di sua figlia sono state perfette») , salvo tenersi alla larga dal Parlamento dove un’interrogazione a risposta scritta di Sel (cui non risponderà mai) chiede conto dell’accaduto. Poi, ci ripensa. Il 12 luglio annulla il decreto di espulsione e ordina un’inchiesta interna che deve assolverlo. Scoprendo in quattro giorni (al capo della Polizia viene chiesto di consegnare il compito prima del voto di fiducia al Senato) che chi lo ha “tradito” sono il suo capo di Gabinetto Giuseppe Procaccini e un navigato prefetto di lungo corso, Alessandro Valeri, segretario del Dipartimento della Pubblica Sicurezza.
Bene. Non una di queste circostanze ha retto alla verifica dei fatti.
a)
Giuseppe Procaccini informa Alfano della richiesta di catturare Mukhtar Ablyazov avanzata dall’ambasciatore kazako il 29 maggio. E questo, dopo
aver pianificato con il diplomatico e il Prefetto Valeri, la sera del 28, il blitz nella villa di Casal Palocco.
b)
Procaccini viene incaricato di ricevere il diplomatico dallo stesso Alfano, che gli raccomanda solerzia trattandosi
di «questione delicata». Il che rende logicamente incomprensibile come il ministro abbia potuto raccomandare qualcosa di cui non conosceva il merito, se è vero che il ministro e l’ambasciatore non si parlarono mai.
c)
La mattina del 29 maggio, l’ambasciatore kazako torna al Viminale. È ricevuto, ancora una volta, da Procaccini, con cui si lamenta degli esiti del blitz della notte precedente nella villa di Casal Palocco e da cui ottiene un supplemento di ricerche.
2. “NULLA SEPPI DELLA DONNA E DELLA BAMBINA”
Costretto ad aggiustare la prima versione dei fatti, Alfano si impicca a una sua funambolica variante. La vicenda Ablyazov — dice — ha avuto effettivamente “un prima” (la ricerca del “pericoloso latitante”) e un “dopo” (l’espulsione della moglie e della figlia). Del prima, concede, «venni informato da Procaccini». Del “dopo”, «nulla seppi fino al colloquio con la Bonino».
Anche in questo caso, i fatti lo sconfessano.
a)
La notizia dell’espulsione di Alma Shalabayeva e della sua bimba viene battuta dall’Ansaalle 20.01 del 31 maggio, un’ora dopo il decollo da Ciampino dell’aereo che le riporta in Kazakistan.
b)
Due diversi cablo dell’ufficio Interpol di Astana, tra il 28 e il 30 maggio, indicano che, sin dall’inizio, la caccia grossa del Regime di Nazarbaev ha due obiettivi. Mukhtar Ablyazov, naturalmente, e sua moglie Alma Shalabayeva. Della donna — che, alla vigilia del blitz di Casal Palocco, i kazaki avvertono viva con il marito — vengono fornite in un primo cablo le generalità complete. Nel secondo, oltre agli estremi dei suoi due passaporti kazaki, anche quelle di un passaporto della Repubblica centroafricana “presumibilmente falso” (quello che effettivamente mostrerà alla nostra polizia al momento del fermo). Il tutto, accompagnato da una richiesta: «Fermatela quella donna e deportatela in Kazakistan».
c)
Il pomeriggio del 31 maggio, all’aeroporto di Ciampino, poche ore prima del decollo dell’aereo con a bordo la Shalabayeva, il consigliere di ambasciata kazako Khassen, di fronte all’assistente capo della polizia Laura Scipioni, sventolando il biglietto da visita di Giuseppe Procaccini, ne compone per cinque volte il numero dal suo telefono cellulare. E non è un numero qualunque. Nell’ufficio di Procaccini, infatti, la mattina del 29 maggio si è discusso dell’esito del blitz di Casal Palocco. Ragionevolmente, dunque, anche del fermo della Shalabayeva.
3. “IGNORAVO CHE ABLYAZOV E LA MOGLIE FOSSERO RIFUGIATI”
Quando tutto comincia a mancare, Alfano, ritenendolo un formidabile argomento difensivo (ancorché un’ammissione di inettitudine dei nostri apparati di sicurezza centrali e periferici), spiega che, comunque, nessuno seppe, se non a cose fatte, che Ablyazov era un dissidente e, insieme alla moglie, godeva dello status di rifugiato politico in Inghilmento terra.
La parziale verità dell’affermazione è sfigurata e svuotata di ogni significato, fino a trasformarla nel suo contrario, da ciò che accade dopo che il Viminale apprende da Scotland Yard (per altro sollecitata dal nostro Ministero degli Esteri) che Ablyazov e la moglie sono effettivamente rifugiati politici (il 4 giugno). Per l’intero mese di giugno, infatti, mentre il ministro dell’Interno è politicamente inerte e si guarda bene dal riconsiderare il provvedimento di espulsione della Shalabayeva (lo farà solo il 12 luglio), la nostra Polizia, su indicazioni e sollecitazioni pressanti dei kazaki, prosegue la sua caccia senza quartiere a Mukhtar Ablyazov.
Ostinato nel tacere la verità, Alfano sfida chi gliene chiede conto scommettendo sull’omertà dell’altro protagonista della vicenda: il regime di Nazarbaev. Ancora ieri, in un’intervista al Corriere della Sera, invitava con sarcasmo a chiedere non a lui, ma all’ambasciatore Yelemessov perché, il 28 maggio, decise di sollecitare la cattura di Ablyazov prima in Questura a Roma e poi al Viminale. Omettendo, naturalmente, di spiegare il perché lui e il suo capo di gabinetto permisero che il diplomatico kazako si accampasse per 36 ore al piano nobile del Viminale disponendo dei nostri apparati della sicurezza come di cosa propria.
È possibile, se non molto probabile, che la scommessa di Alfano sul silenzio kazako sia ben riposta. Ma se il segreto di Astana dovesse anche solo incrinarsi, si può star certi che di questa storia si tornerà a parlare molto presto. E non basterà un ricatto sul governo a soffocarla o a impedire di guardare la verità dritta negli occhi.


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