I misteri dell’operazione Ablyazov Quelle strane visite dei kazaki nelle stanze di Viminale e Questura

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ROMA. COME è stato possibile? Chi lo ha reso possibile? E perché? Repubblica ha avuto accesso ai documenti amministrativi e giudiziari del caso Ablyazov. Ha raccolto le testimonianze di chi ha avuto parte diretta in questa vicenda.
SONO dodici diverse fonti — inquirenti, legali, ministeriali e di polizia — che consentono una prima ricostruzione di dettaglio di quanto accaduto tra la mattina del 27 maggio e la sera del 31, quando, all’aeroporto di Ciampino, Alma Shalabayeva, moglie del dissidente, sale insieme alla figlia Alua sulla scaletta dell’aereo che l’indomani mattina la riporterà ad Astana.
28 Maggio. Kazaki in Questura Il 28 maggio, dunque. La storia comincia da qui. Quel martedì mattina, i due kazaki che si presentano in Questura nell’ufficio del capo della Squadra Mobile Renato Cortese, non stanno nella pelle. Sono Andrian Yelemessov, l’ambasciatore in Italia, e il suo primo consigliere Nurlan Zhalgasbayev. L’agenzia privata di investigazioni Syra, che ha i suoi uffici a Roma, per un compenso di cinquemila euro, ha individuato per conto del Regime di Astana la casa in via di Casal Palocco 3 dove si rifugerebbe il dissidente Mukhtar Ablyazov. I kazaki prospettano a Cortese “un colpaccio”. L’arresto di un uomo che dipingono come un pezzo da 90. «Tra i più pericolosi ricercati dall’Interpol». I due, per suonare ancora più convincenti, agitano pezzi di carta che vendono come proprie informazioni di intelligence e polizia e che dipingono l’uomo come «pericolosissimo ». Abituato «a girare armato ». «Fiancheggiatore e finanziatore del terrorismo».
Cortese non sa chi diavolo sia Ablyazov. Spiega ai kazaki che nel nostro Paese si può arrestare qualcuno in forza di un provvedimento legittimo. Non di una soffiata. Consulta la banca dati della Polizia in cui quel nome non compare. Una ricerca internet potrebbe dire qualcosa di più su colui che, dal 2001, ha assunto il ruolo di oppositore del presidente Nazarbaev. Ma il Capo della Mobile, su insistenza dei kazaki, chiama la nostra divisione Interpol al Viminale. Il funzionario dall’altro capo del telefono lo conforta. Nella loro banca dati, quel Mukhtar «ha il bollino rosso». Sulla sua testa, pende un mandato di cattura internazionale kazako per appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. E la telefonata deve confortare Cortese se è vero che, nel pomeriggio, proprio dall’ufficio Interpol arriva un fax che certifica e sollecita alla Mobile l’ordine di cattura internazionale. Del suo status di rifugiato politico ottenuto a Londra non una sola menzione. La circostanza non è burocraticamente presente nella banca dati dell’Interpol, dunque «non esiste».
Kazaki al Viminale
La solerzia dell’Interpol e il repentino via libera dato a Cortese hanno una ragione. Il pomeriggio del 28, l’ambasciatore kazako e il suo primo consigliere salgono anche i gradini del Viminale e vengono ricevuti da un alto dirigente del Dipartimento di Pubblica sicurezza, di fronte al quale ripetono il siparietto della Questura. E devono suonare convincenti, perché vengono rassicurati sul fatto che il blitz ci sarà.
Ad horas. 
Chi è il dirigente? Informa il ministro Angelino Alfano? Fonti qualificate del Viminale, proteggendone l’identità, spiegano che «il nome del dirigente è oggetto dell’inchiesta interna disposta dal ministro». «Anche perché — aggiungono le stesse fonti — quel dirigente non ritiene di dover informare il ministro, né prima, né dopo, della visita e della richiesta dei diplomatici kazaki».
28-29 maggio. In 30 per il Blitz
E’ un fatto che la richiesta kazaka viene cotta e mangiata. Nella notte tra il 28 e il 29, dopo un rapido sopralluogo in via di Casalpalocco 3, una grande villa con giardino protetta da un muro di recinzione alto 2 metri, una trentina di poliziotti della squadra mobile, cui vengono aggregati anche agenti della Digos, fa irruzione.
La visita non è di quelle in guanti bianchi. Mukhtar Ablyazov non c’è. Perché in casa, insieme alla moglie Alma e alla piccola figlia Alua, c’è un solo uomo, Bolat Seraliyev, il cognato del “Grande Ricercato”. Viene malmenato fino a fargli sanguinare il naso (o almeno così certificherà il pronto soccorso) e insieme alla sorella Alma finisce in una cella dell’Ufficio Immigrazione. Mentre nei borsoni della mobile finisce quanto sequestrato nella villa: 50 mila euro, dei gioielli, una scheda di memoria su cui è una foto digitale di Mukhtar che porta la data del 25 maggio.
Il passaporto diplomatico. La Farnesina
Alle 7.30 del mattino del 30 maggio, Alma Ablyazov è «una pratica ordinaria» sul tavolo del direttore dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta. E come tale viene trattata. Burocraticamente come le altre 7 mila espulsioni che ogni anno questo ufficio “evade”. La donna racconta di essere rimasta 15 ore senza bere o mangiare. Di non aver avuto accesso a interpreti in grado di spiegare la sua condizione. Va meglio al fratello Bolat che, accompagnato dai poliziotti nella villa di Casalpalocco, ne torna con un permesso di soggiorno rilasciato in Lettonia che lo rende legale nell’area Schengen. Anche Alma ne avrebbe uno identico. Ma non lo mostra, né dice di averlo. Consegna piuttosto alla polizia un passaporto diplomatico della Repubblica Centroafricana. Il documento viene spedito per accertamenti al “Centro falsi documentali” della Polizia di Fiumicino e, il pomeriggio del 30, l’esito è che si tratta di un «falso».
L’Ufficio Immigrazione contatta la Farnesina. E anche qui, la burocrazia cade dal pero. Nemmeno al nostro ministero degli Esteri sanno che quella donna è la moglie di un dissidente kazako. Sanno solo che, qualche anno prima, è stata proposta console onorario del Burundi in Italia. Nomina che non ha avuto corso. Ma dello status diplomatico della donna non c’è traccia. Insomma, per quanto li riguarda e dunque per la polizia ce ne è abbastanza per espellerla.
Errori materiali. Un solo dubbio
Il 30 pomeriggio, mentre Alma riesce a incontrare per la prima volta gli avvocati dello studio Vassalli- Olivo, incaricati della sua difesa da uno studio di corrispondenza di Ginevra, il suo destino è già segnato. Il prefetto di Roma Pecoraro vista il decreto di espulsione predisposto dall’Ufficio immigrazione. E poco importa che contenga un paio di significativi errori materiali. Che, nel prestampato, sia rimasta barrata la casella dei precedenti penali (che Alma non ha). E che la donna risulti “già entrata clandestinamente in Italia” nel 2004 dal Brennero (in realtà la segnalazione di polizia riguarda un suo arrivo ad Olbia insieme al marito per una vacanza). Alla vigilia dell’udienza del giudice di Pace che deve decidere dell’espulsione, il pm Eugenio Abbamonte e il Procuratore Giuseppe Pignatone, sollecitati dagli avvocati dello studio Vassalli che prefigurano le ricadute “umanitarie” di quell’espulsione, chiedono all’Ufficio Immigrazione un supplemento di documenti. Che arriva ed è sufficiente al loro nulla-osta.
La sera del 31, «tutte le carte sono a posto», secondo la regola aurea che muove la burocrazia italiana e la libera da ogni responsabilità. Alma Shalabayeva viene consegnata insieme a sua figlia alle autorità kazake all’aeroporto di Ciampino. Il Paese è precipitato in un affaire internazionale di evidente gravità. Ma nessuno sembra saperlo.


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