I signori mondiali delle armi

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I mercanti di armi si lamentano, evocano una crisi nera. In tutti i paesi occidentali lobby sui governi, paventando licenziamenti di massa e ritardi nello sviluppo tecnologico. Ma le cose per loro non vanno così male: quelle russe fanno affari d’oro, quelle americane continuano a guadagnare mentre le europee faticano ad adeguarsi a un settore dove ormai c’è spazio solo per i supercolossi. La classifica redatta dal sito specializzato “Defense News” offre un panorama eccezionale dell’industria bellica. Al primo posto c’è Lockheed Martin, produttore anche del caccia F-35, con ben 44,8 miliardi di dollari incassati nel 2012 dalla vendita di armamenti: un incremento del due percento, nonostante i tagli del Pentagono. La segue, distanziata, Boeing che ha messo nel carniere ordini militari per 31 miliardi, anche lei in crescita.

Finmeccanica, il leader italiano delle tecnologie avanzate, rimane all’ottavo posto tra i signori della difesa planetaria: ha fatturato 12 miliardi e mezzo di dollari dalla produzione di aerei, missili, radar e cannoni. L’azienda a controllo statale però si mostra in profonda difficoltà: ha perso il 14 per cento in un anno, per effetto della recessione nel Vecchio continente dove tutti i governi stanno amputando i bilanci bellici. A sorpresa, invece, Fincantieri di Genova registra un aumento del 5 per cento nei contratti militari, saliti a 1,14 miliardi di dollari. Ma i lavoratori italiani hanno poco da rallegrarsi: parte di questi guadagni nasce dai cantieri che la società statale ha acquistato in altri paesi, soprattutto negli States.

LA CONVERSIONE. Gli europei sembrano lenti nel trovare una dimensione che gli permetta di competere con i giganti made in Usa e con gli spregiudicati russi. Ma soprattutto non hanno capito che il vento sta cambiando ovunque. L’analisi di “Defense News” mostra come i signori delle armi su scala globale abbiano compreso la necessità di adattarsi per sopravvivere: nonostante il calo degli ordini da parte di generali e ammiragli, hanno mantenuto intatti i fatturati. Come? Investendo nella produzione civile. I 13 miliardi di dollari persi complessivamente dalla vendita di missili e caccia, sono stati ricompensati dalle entrate del mercato non militare. Nel 2007 il 38 per cento dei ricavi delle Big 100 veniva dalla Difesa, adesso solo il 28 è frutto dello shopping militare. Una lezione che dovrebbe servire per tutti.

L’EUROPA IN RITARDO. Invece una lettura superficiale potrebbe evidenziare come la strategia di Finmeccanica sia in controtendenza: i piani della compagnia prevedono di cedere le aziende che si occupano di centrali elettriche e di treni. In realtà gli analisti ritengono che l’industria europea della difesa potrà sopravvivere solo se concentrerà le risorse su pochi programmi chiave. E riuscirà a fondere i gruppi nazionali in holding continentali. Oggi tutte le imprese perdono colpi: la Bae britannica è in calo dell’8 per cento, il consorzio multinazionale Eads del 7; i francesi di Thales del 2. Un pessimo scenario per un settore che dà lavoro a 400 mila persone, quasi tutti laureati, e nel 2010 aveva un giro d’affari di 90 miliardi di euro. Su questo punto è atteso  l’annuncio di un piano della Ue stilato dal commissario per il Mercato interno Michel Barnier e da quello per l’Industria Antonio Tajani. L’obiettivo è cercare di incentivare la cooperazione delle imprese europee nei programmi che decideranno il futuro della difesa, come i nuovi droni teleguidati da combattimento, e che richiederanno capitali ciclopici. Certo, forse si potrebbero anche individuare prospettive diverse per uscire dalla crisi. E invece di promuovere altri progetti di armi ipertecnologiche, forse la Commissione Ue dovrebbe spingere le aziende a fondersi in funzione di quella riconversione civile che sembra premiata dai bilanci: meno radar, più sistemi diagnostici biomedicali, ad esempio.

IL RITORNO DELL’ORSO. Oggi chi sta spadroneggiando nelle esportazioni di armi sono soprattutto i russi, che stanno superando velocemente i ritardi nello sviluppo e offrono prodotti competitivi a chiunque, inclusi gli “stati canaglia”. Grazie al sostegno del governo di Mosca, le aziende si stanno adeguando ai metodi del marketing e mettono a segno contratti anche nei vecchi clienti di Europa e Stati Uniti. I risultati sono impressionanti. L’export bellico russo è decollato a 14 miliardi di dollari l’anno, raddoppiato rispetto ai dati del 2005. Il conglomerato Almaz-Antey è passato in un anno dal 25mo al 14mo posto della classifica mondiale, con ordini per oltre 5 miliardi e mezzo di dollari: producono soprattutto batterie missilistiche anti-aeree, quelle promesse anche alla Siria di Assad ma gradite persino da paesi della Nato. Il boom è figlio anche del riarmo voluto da Putin, che ha decretato la rinascita dell’Armata rossa con un piano che prevede in nove anni l’acquisto di apparati per 641 miliardi di dollari. Ma anche dei successi che le imprese di Mosca mettono a segno in Cina e India, i grandi compratori bellici di questo momento.


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