IL CIRCOLO VIZIOSO DA SPEZZARE
Decisive le scelte che si compiranno nelle prossime settimane, quelle che ci separano dalla presentazione della Legge di Stabilità.
Non si vede ancora la luce in fondo al tunnel, ma ci sono alcuni segnali positivi. Gli ordinativi nell’industria sono in crescita da marzo, la produzione industriale ha smesso di cadere e altri indicatori che in genere anticipano l’andamento dell’economia (come il cosiddetto superindice Ocse) volgono al bello. Migliora anche il clima di fiducia di consumatori e imprese, anche rispetto agli altri paesi della zona Euro, come certificato ieri dall’indice Esi.
Ma questi segnali positivi sono destinati a rivelarsi effimeri e la fine della recessione una semplice pausa nella discesa lungo il Maelstrom, se non si riesce a spezzare il circolo vizioso che va dalla stretta creditizia alle sofferenze bancarie. Le banche tagliano il credito mettendo in difficoltà imprese che non riescono a ripagare i loro debiti, spingendo a loro volta le banche a ridurre ulteriormente gli impieghi. È un circolo vizioso destinato a non esaurirsi: il passaggio al sistema di supervisione bancaria unica presso la Bce comporta controlli più stringenti sulla stabilità degli istituti di credito e, non a caso, la maxi-ispezione di Banca d’Italia su 20 istituti di credito ha portato a mettere otto di queste banche sotto sorveglianza speciale, perché con accantonamenti insufficienti a coprire i crediti deteriorati. Le linee guida sulla contabilizzazione delle sofferenze spingeranno i nostri istituti di credito a tagliare ulteriormente gli impieghi, dunque gli oneri del debito per le nostre imprese, che hanno già superato il 50 per cento dei margini operativi nel 2012, come messo in luce dai dati sintetici prodotti da Cerved group sui bilanci depositati presso le Camere di Commercio. Molte nostre imprese hanno un debito pari a due volte il loro patrimonio e anche quelle messe meglio reagiranno alla ulteriore stretta creditizia tagliando gli investimenti. Del resto la Commissione Europea, che non ha certo peccato di pessimismo sin qui dato che da tempo annuncia riprese primaverili che poi si sciolgono come la neve al sole, prevede un calo degli investimenti in tutta la zona Sud dell’euro nei prossimi 5 anni.
Per spezzare il circolo vizioso ci vuole una maggiore patrimonializzazione delle nostre imprese. È cresciuta di circa il tre per cento nel 2012. Troppo poco. Bisogna che molti proprietari di piccole aziende, tradizionalmente restii a mettere soldi di tasca propria, impegnino i loro patrimoni personali nell’impresa cui hanno dedicato una vita. Bisognerebbe incentivarli a farlo, con opportuni sgravi fiscali. Importante anche aiutarli a trovare fonti di finanziamento alternative al canale bancario per gli investimenti di cui le loro imprese hanno bisogno per reggere la competizione internazionale. Dato il volume delle sofferenze bancarie, il fondo di garanzia pubblico per le piccole imprese e per i confidi, consorzi di piccole imprese che offrono garanzie sui prestiti degli associati, ha una leva molto bassa e deve essere sistematicamente rifinanziato. Soprattutto ora che abbiamo appreso che la Bce farà poco e nulla per favorire la creazione, come negli Stati Uniti, di un mercato di titoli strutturati che contengano obbligazioni emesse da piccole imprese. Una parte consistente dei fondi di garanzia per le piccole imprese potrebbe venire da un diverso utilizzo di quei 40 miliardi di fondi strutturali ancora non spesi nell’esercizio 2007-2013.
Questa della riprogrammazione dei fondi strutturali è un’altra ragione per cui oggi ci vuole un governo attivo sul fronte economico e non solo su quello istituzionale. A livello europeo è in atto un ripensamento su come è stata esercitata la condizionalità nell’imporre un aggiustamento fiscale molto pesante a Grecia e Italia e agli altri paesi della cosiddetta “periferia”. Non illudiamoci: non è in vista alcun alleggerimento del cosiddetto fiscal compact.
Ma è vero che nella Ue ci si interroga sul fatto che, assieme ai tagli di spesa e alle tasse, l’Europa non sia riuscita a far progredire l’agenda delle cosiddette riforme strutturali, quelle che aumentano il tasso di crescita potenziale di un’economia. C’è un grande senso di frustrazione per i pochi progressi compiuti in questi anni su questo fronte e consapevolezza del fatto che rimane ancora tantissimo da fare. Un dato sopra tutti ce lo conferma: oggi i servizi contano per più di due terzi del reddito dell’Unione, ma solo un quarto del commercio all’interno dell’Ue è in questi settori perché sono ancora fortissime le barriere erette alla concorrenza nei diversi paesi. Ed è proprio rilanciando le liberalizzazioni che si potrà tenere la Gran Bretagna dentro all’Unione, dato che una più forte integrazione nei mercati della Ue aumenta i costi per chi sta fuori.
Ci sono così le premesse per un negoziato che riveda alla radice il funzionamento dei fondi strutturali, trasfor-mandoli in fondi per le riforme strutturali. Anziché non venire spesi o andare a finanziare come oggi le sagre di paese, dovrebbero servire a sostenere le riforme strutturali soprattutto nei paesi che hanno maggiori vincoli di bilancio. Perché le riforme più utili sono ancora più difficili se non si trova un modo di compensare i perdenti. Ad esempio, l’Italia potrebbe legittim amente chiedere di utilizzare i nuovi fondi strutturali, quelli dell ’esercizio 2014-2020, per affrontare il nodo esodati, associato ad una riforma delle pensioni che ci è stata chiesta dall’Europa. Oppure i fondi strutturali potrebbero essere utilizzati per cominciare a detassare il lavoro per chi ha redditi più bassi mentre si conduce una lotta senza quartiere all’evasione fiscale, che preoccupa giustamente i contribuenti di altri paesi. Ancora la riforma degli ammortizzatori sociali potrebbe essere aiutata sostenendo la creazione di un reddito minimo, come paracadute per chi, senza lavoro, perde l’accesso a una cassa integrazione spesso offerta a costo zero per le imprese e senza limiti di tempo. È un’idea dopotutto, sostenuta a livello europeo fin dal rapporto Marjolin del 1975. Una gestione di questo tipo dei fondi strutturali, magari rafforzata escludendo i cofinanziamenti nazionali dai vincoli del
fiscal compact, aumenterebbe la capacità di controllo da parte degli organismi comunitari della spesa dei singoli paesi e, soprattutto, la capacità dell’Unione di imporre riforme favorevoli alla crescita nel lungo periodo mentre nell’immediato si dà un po’ di ossigeno all’economia. Perché è chiaro che oggi per ripartire non bastano le sole riforme strutturali, le politiche d’offerta. Ci vogliono politiche macroeconomiche più espansive per bloccare subito i circoli viziosi e riforme strutturali per dare stabilità a questa ripresa.
Aspettare la ripresa o le elezioni tedesche rischia solo di regalarci delusioni ancora più cocenti del sole di inizio agosto. La battaglia che il nostro governo deve condurre a Bruxelles serve a rafforzare la legittimazione delle autorità europee e per ridurre gli sprechi nella gestione del bilancio comunitario. Perché si può trovare un modo più efficace per stimolare quelle azioni nazionali che servono a tutti. Gli argomenti degli euroscettici tedeschi saranno meno convincenti se anche la Germania sarà messa nelle condizioni di spendere i fondi che le vengono assegnati dall’Europa e che oggi riesce a utilizzare solo al 60 per cento. Gli euroscettici forse non ce la faranno a raggiungere il quorum per avere rappresentanti al Bundestag il 22 settembre se si saprà che questi soldi non possono più essere utilizzati per finanziare la “giostra del castrato”, ma solo per fare altrove quelle riforme che hanno permesso il miracolo tedesco di questi anni.
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