Il ministro del “non sapevo”

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 NON c’è traccia nel lavoro del capo della Polizia e nelle parole di Alfano né delle comunicazioni che la diplomazia kazaka ebbe con il capo di gabinetto del ministro prima, durante e dopo l’operazione, né della pressione subita dalla Questura di Roma nell’agire ad horas in quel di Casal Palocco. E questo perché non funzionali all’esito. Che era scritto: l’harakiri del capo di gabinetto del ministro Giuseppe Procaccini, con le sue dimissioni volontarie, la proposta di avvicendamento del segretario del Dipartimento della Pubblica sicurezza, il prefetto già pensionando Alessandro Valeri (lascerà per raggiunti limiti di età l’amministrazione a ottobre), una futuribile “riforma organizzativa del Dipartimento di Pubblica Sicurezza”, nonché una velata possibilità di avvicendamenti negli Uffici centrali dell’Immigrazione (in quello territoriale al centro della vicenda, era già stato deciso che il dirigente, Maurizio Improta, lasciasse ad ottobre per frequentare il corso di alta formazione).
Di più: le tredici cartelle ignorano – e vedremo come – una circostanza non esattamente neutra nel valutare chi sapeva cosa e quando. Che, il 31 maggio, sulla pista dell’aeroporto di Ciampino su cui attendeva l’aereo che doveva rimpatriare la Shalabayeva e sua figlia, il consigliere di ambasciata kazako Nurlan Khassen provò a raggiungere telefonicamente per ben cinque volte il capo di gabinetto di Alfano.
Ma vediamo, dunque.
ABLYAZOV? CHI È COSTUI?
Scrive il capo della Polizia e lo ripete Alfano scandendo il passaggio della relazione: «Va ribadito che in nessuna fase della vicenda, i funzionari hanno avuto notizia alcuna sul fatto che Ablyazov, marito della cittadina kazaka espulsa fosse un dissidente politico fuggito dal Kazakistan e non un pericoloso ricercato per reati comuni».
L’affermazione è sorprendente. Attesta infatti una circostanza. Che, come nella truffa del Colosseo, l’ambasciatore di un ex repubblica sovietica, in un giorno solo, il 28 maggio, può avviare d’incanto – essendo immediatamente ricevuto in Questura e al Viminale – una mastodontica caccia all’uomo senza che un solo funzionario, dirigente o prefetto si premuri di verificare autonomamente, anche con una semplice ricerca Internet, di chi si stia parlando. Di fatto, il 28 maggio – questo attesta la relazione – il capo della nostra polizia è stato nella vicenda Ablyazov, non il “reggente” Alessandro Marangoni, ma l’ambasciatore Andrian Yelemessov. Di più: per espressa indicazione politica del ministro dell’Interno, la nostra polizia non si è mossa sulla scorta di notizie di Intelligence propria o altrui attentamente e doverosamente verificate, ma di una nota Interpol, sollecitata la stessa mattina del blitz da Astana Kazakistan (guarda un po’) e arricchita da uno scartafaccio di 200 pagine messe insieme, per 5 mila euro, da un’agenzia di investigazione privata di Roma in una settimana di pedinamenti e osservazioni a Casal Palocco.
IL MINISTRO NON RISPONDE AL TELEFONO
Si legge nella relazione: «Nel corso della mattinata del 28 maggio, il ministro è stato cercato dall’ambasciatore Yelemessov, cui non ha risposto e ha fatto incontrare lo stesso con il suo Capo di Gabinetto».
Pansa e Alfano, che sul punto glissa in Senato, ritengono irrilevante approfondire sia i dettagli dell’incontro al Viminale tra l’ambasciatore e Procaccini, sia il contenuto delle comunicazioni tra Procaccini e il ministro sul conto di Ablyazov dopo quell’incontro. Parlandone a “Repubblica” (l’intervista è pubblicata a pagina 4), Procaccini, ad esempio, spiega di averne verbalmente riferito al ministro il giorno 29.
QUEL CHE IL MINISTRO NON DEVE SAPERE
Scrive Pansa: «E’ evidente che non tutte le informazioni sono portate a conoscenza del Ministro dell’Interno, in quanto sono preventivamente selezionate in ordine di importanza e rilevanza. Tale valutazione compete all’ufficio del Capo di Gabinetto del Ministro e alla Segreteria del Dipartimento della Pubblica sicurezza. Per quanto concerne le espulsioni, queste non vengono assolutamente segnalate al Ministro, che ne può prendere tutt’al più cognizione periodica sul piano meramente statistico».
Il passaggio della relazione è funzionale al solenne incipit delle comunicazioni di Alfano in Senato. In qualche modo ne è il sigillo. Dice infatti il ministro: «Sono qui a riferire di una vicenda di cui io e nes-
sun altro ministro del governo è stato informato».
E’ un altro dei punti che tradisce la disperazione politica di chi ha scelto di trincerarsi non solo dietro il “non sapevo”, ma anche il “non potevo sapere”. Né Alfano, né la relazione Pansa, infatti, indugiano anche solo un istante su due domande che restano inevase. La prima: per quale motivo un ministro dell’Interno che aveva sollecitato l’incontro con i diplomatici kazaki per «una questione delicata» cessa improvvisamente di chiedere conto degli sviluppi di quella vicenda? Per quale motivo il Dipartimento di Pubblica Sicurezza che era stato sollecitato all’operazione Ablyazov dal Gabinetto del ministro decide, in un black-out inspiegabile, di non tenere al corrente lo stesso ministro di quanto accaduto nella villa di Casal Palocco nella notte tra il 28 e il 29 maggio e nei giorni successivi?
UN CURIOSO “NON RICORDO”
Per superare l’ostacolo posto dalle due domande, la relazione Pansa è costretta a un passaggio funambolico: «In effetti, la verifica fatta dallo scrivente, porta a ritenere che al Dipartimento si è data importanza solo alla ricerca del latitante, che è stata attentamente eseguita e comunica-
ta nel suo esito negativo. E’ mancata però un’attenzione puntuale su tutto il rapporto innescato dalle autorità kazake. (…) Il Prefetto Valeri ha memoria solo delle informazioni relative alla fase di polizia giudiziaria, ma non ricorda quando ha appreso dell’espulsione della donna e delle modalità esecutive della stessa».
Il segretario del Dipartimento “non ricorda” dunque quando ha appreso che al posto di un latitante la Polizia aveva arrestato la sua compagna, una donna incensurata, e la sua bimba di 6 anni. Curioso. Valeri ha evidentemente una memoria che va a momenti alterni. E’ infatti una circostanza documentata che la Questura di Roma nel comunicare l’esito dell’operazione a Casal Palocco non ometta nulla di quanto accaduto. E che l’attenzione del Dipartimento non scemi dopo “la comunicazione dell’esito negativo della ricerca del latitante” è dimostrato da una seconda circostanza. Anche questa omessa dalla relazione Pansa. Che il 29 maggio, il Dipartimento sollecitò una seconda perquisizione nella villa di Casal Palocco. Se ormai la faccenda non interessava più nessuno, se è vero che era diventata “pratica ordinaria”, perché insistere? In quella casa, per altro, c’era ancora la bimba affidata a un domestico.
Anche questo ignorava il Dipartimento quando chiese la seconda
perquisizione?
LE TELEFONATE DA CIAMPINO
La relazione Pansa non ha nessun interesse a lavorare sui dettagli, perché i dettagli rischiano di strappare una tela che somiglia al fondale di cartapesta di una rappresentazione di cui è urgente arrivare alla fine. Il Capo della polizia, infatti, deve e vuole dire una cosa sola: «Il Dipartimento non ha seguito in tutte le sue fasi il processo stimolato dalle autorità diplomatiche kazake che avrebbero voluto investirne il ministro ma che erano riuscite solo a raggiungere il suo capo di gabinetto. Lo stesso Dipartimento ha seguito l’evolversi delle iniziative dei diplomatici kazaki fino a un certo punto, come se dovesse rispondere al gabinetto del ministro solo relativamente all’eventuale cattura del latitante e non dell’insieme dell’operazione».
Ebbene, c’è un dettaglio che balla nella copiosa mole di atti dell’inchiesta interna decisivo. Il pomeriggio del 31 maggio, all’aeroporto di Ciampino, l’imbarco sull’aereo per Astana della Shalabayeva e di sua figlia, ha momenti di tensione. Due diplomatici kazaki, il consigliere Nurlan Khassen e il console Yerzhan Yessirepov, si aggirano intorno all’aereo mostrando sacro terrore per fantomatici e incipienti attentati. Prima che l’aereo parta o mentre è in volo. Ne nasce una discussione con i poliziotti presenti che scortano la donna e la bambina. E che i kazaki – come risulta dalle relazioni di servizio degli stessi poliziotti – provano a risolvere come loro solito.
Il consigliere Khassen sventola sotto il naso degli agenti il biglietto da visita di Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto di Alfano. Quindi, afferra il cellulare e, per cinque volte, compone il numero del prefetto (apparentemente senza riuscire a parlargli). Singolare. Che significato ha questo siparietto? E’ un altro gesto da capitan Fracassa della diplomazia kazaka, o, al contrario, l’ennesimo indizio della consapevolezza di essere “i padroni” al Viminale? Che il consigliere Khassen ritenesse di poter fare il bello e il cattivo tempo non è forse l’ennesima dimostrazione di quanto sia fragile, nella logica e nella concatenazione dei fatti, sostenere che, dalla mattina del 29, l’ufficio del Gabinetto del ministro e il Dipartimento si “disinteressarono” della questione Ablyazov. Anzi, ignorarono che esistesse un caso?


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