L’autodifesa tra le virgolette

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 E IN un’aula addormentata le comunicazioni-lampo del governo sul sequestro e l’espulsione della moglie e della figlia di Muktar Ablyazov si risolvono in un dibattito a salve, senza momenti di tensione reale, quasi contagiato dal burocratese del rapporto che il ministro dell’Interno ha letto due volte, prima a Palazzo Madama e poi a Montecitorio, con il tono e la mimica di un consumato attore.
Mai, in quello che doveva essere il suo giorno più lungo da quando ha salito lo scalone d’onore del Viminale, forse la prova generale del dibattito sulla mozione di sfiducia contro di lui che il Senato voterà venerdì, Alfano ha sentito traballare la sua poltrona. Nessuno l’ha interrotto, neanche una volta, mentre raccontava l’incredibile vicenda delle due donne prelevate dalla polizia e accompagnate in gran fretta sull’aereo privato noleggiato dal dittatore del Kazakistan. E a sera, facendo i conti, il ministro poteva dire che solo gli oppositori del governo, i soliti grillini e i soliti vendoliani, avevano messo in dubbio la sua versione, solo loro avevano pronunciato in aula la parola “dimissioni”.
Sin dal momento in cui ha messo piede nell’emiciclo rosso del Senato, alle 18 in punto, Alfano ha assunto l’atteggiamento non dell’imputato ma del pubblico ministero. Si è seduto nella poltrona del presidente del Consiglio, perché Letta non c’era (“E’ partito per Londra” ha precisato lui stesso, allontanando i sospetti di un’assenza voluta) accanto a mezzo governo: Franceschini, D’Alia, Quagliariello, Saccomanni, Bray, Mauro, Giovannini, Cancellieri, Lupi e Kyenge (su uno strapuntino, ma molto complimentata), ma non la Bonino la cui assenza è stata notata da tutti. E con i fogli del rapporto Pansa in mano, quei fogli che agitava ora a destra ora a sinistra del microfono facendoli danzare come la muleta di un torero, guardando di qua e di là con la sapienza di un conduttore televisivo, il ministro dell’Interno chiedeva lui conto e ragione di quello che è successo tra il 28 e il 31 maggio, si accalorava domandandosi “come sia potuto accadere tutto ciò” e si infervorava chiedendosi come si fa “a fare in modo che ciò non accada mai più”, dichiarandosi implicitamente vittima e non colpevole del pasticciaccio brutto del Viminale.
Per essere più credibile, ha scelto di parlare a braccio, prima di leggere la lunga relazione del capo della polizia, ma è inciampato quasi subito in un involontario burocratese (“la nota vicenda della cosiddetta kazaka”, “il flusso informativo ascendente”) e poi s’è destreggiato come ha potuto nella lettura di una relazione altrui che citava qualcun altro (“E qui apro virgolette nelle virgolette”, “Chiuse le virgolette nelle virgo-lette”), fino a chiedere scusa degli errori di lettura (“Poi il funzionario… No, poi l’ho detto io: mi è scappato un poi”). Ma sembrava che leggesse una requisitoria, più che un documento a sua discolpa, pareva che da un momento all’altro gettasse quei fogli sul tavolo concludendo ad alta voce: qualcuno dovrà pagare, per l’affronto che ho subìto.
Gli è andata bene, almeno per il momento. Certo, Sel e i Cinquestelle ne hanno chiesto le dimissioni, coerentemente con le mozioni di sfiducia che hanno presentato. “Lei non può restare al suo posto” gli ha detto il vendoliano Peppe De Cristofaro, rinfacciandogli le bugie del Pdl sulle parentele egiziane di Ruby e ricordandogli che per molto meno la ministra Idem ha dato le dimissioni. “Lei ci ha raccontato una grande menzogna” gli ha detto invece il grillino Giarrusso: “Quello che lei ha definito un ricercato era il capo del principale partito di opposizione del Kazakistan, una dittatura verso la quale nessun paese estrada neanche i criminali: e noi gli abbiamo mandato una madre e una bambina che non avevano commesso nessun reato”. Affondando il coltello sui punti deboli della relazione ufficiale, il senatore del Movimento 5 Stelle ha contestato anche la limitazione delle responsabilità ai vertici del Viminale: “I funzionari hanno agito con la consapevolezza di avere copertura politica, ecco la verità”.
Scontata la difesa d’ufficio del Pdl, anche se Gasparri si è spinto fino all’ironia (“Questo kazako probabilmente non è Garibaldi”) e Cicchitto, alla Camera, ha preso persino le difese del dittatore Nazarbayev (“E’ uno che parla con mezzo mondo, ha incontrato Obama, la Merkel, Barroso…”) riducendo il caso a una campagna di stampa: “Il rapporto taglia la testa al toro.
Ma il fatto è che Repubblica ha tolto la fiducia al governo…”.
Il Pd ha usato parole severe, senza però mettere in discussione — almeno per ora — il racconto del ministro. “Il nostro giudizio è durissimo” ha detto in aula Emanuele Fiano. “Cerchiamo risposte certe e nessuna scusante sarà sufficiente. Il Pd non parteciperà a una speculazione politica su questa vicenda, però è necessario che chi vi ha avuto responsabilità ne paghi le conseguenze”. Resta aperto il dilemma: davvero la colpa di questo pasticcio internazionale è tutta di un pugno di funzionari?


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