Letta e Renzi i due percorsi che spaccano i Democratici
In apparenza il contrasto implica anche due versioni opposte del modello di partito. Ma al fondo riemerge l’esigenza di proteggere Palazzo Chigi e una maggioranza priva di alternative dai settori della sinistra insofferenti nei confronti dell’alleanza col Pdl di Silvio Berlusconi. Anche la tesi prevalente di scindere la carica di segretario da quella di presidente del Consiglio risponde a questa esigenza: avere un leader concentrato sul Pd , senza altre ambizioni. L’appello all’unità arrivato dal premier in carica capta le tentazioni centrifughe e cerca di esorcizzarle quando ricorda a tutti che «serve un partito e non un gruppo misto»: e cioè il rifugio di transfughi senza identità. Ma la ricucitura incontra ostacoli seri e strumentali.
Quando il ministro Dario Franceschini nega che il governo sia l’anticipo di un progetto politico, vuole confutare l’accusa insidiosa di puntare a creare una forza centrista con l’obiettivo di seppellire il bipolarismo. Lo stesso Letta è costretto a ribadire la contrarietà alle larghe intese «per sempre»; e a spiegare che la transizione serve ad archiviarle, non a renderle eterne. Di più: è l’unica maniera, se si realizzano le riforme, per scongiurare altre elezioni senza vincitori e coalizioni anomale in condizioni sempre più svantaggiose.
Ma le resistenze sono profonde, e non soltanto fra gli avversari dichiarati. Perfino il segretario Guglielmo Epifani, l’uomo della mediazione, e lo stesso Letta usano un lessico riduttivo quando parlano dell’esecutivo. Lo definiscono «di servizio» e magari «di necessità», ma evitano l’espressione «di pacificazione». L’idea di un armistizio con Berlusconi provoca una reazione di rigetto culturale, prima che politico. E questo sottofondo di pregiudizi rende difficile qualunque compattamento e alimenta le manovre interne, per quanto possano risultare velleitarie.
La direzione di ieri si è conclusa con un nulla di fatto. Non poteva essere diversamente, vista la quantità dei malumori. Si riunirà di nuovo mercoledì, dopo la sentenza della Corte di cassazione sul Cavaliere, e forse voterà le regole congressuali. Ma la vera scadenza sarà l’assemblea generale del Pd a settembre. La stizza di Renzi che ieri lascia la sede senza una parola, è la chiosa di un confronto tra strategie inconciliabili; e il rifiuto di accettare un epilogo che ridimensionerebbe le ambizioni del sindaco. Eleggere un segretario che usa la carica come trampolino per piombare su Palazzo Chigi anche a costo di frantumare equilibri di cristallo, continua a fare paura.
Quando Letta evoca un «segretario che faccia il segretario», indica un percorso di attesa per un Renzi smanioso di fare il capo del governo; e convinto che il tempo lavori contro di lui. Probabilmente comincia a pensarlo anche il Pd. Il congresso a fine novembre è la massima concessione che Epifani fa a «Matteo» e ai suoi sostenitori tanto eterogenei quanto uniti nella polemica antigovernativa. Volevano una data e l’hanno avuta. Ma per paradosso è comunque lontana, e soggetta alla volubilità di una situazione che promette equilibri e passi obbligati, non scarti e scorciatoie destinate a rivelarsi vicoli ciechi.
Massimo Franco
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