LO STIMOLO ALLA RIPRESA

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La piena ripresa appare tuttora molto di là da venire. E, per quanto mi riguarda, inizio a temere che possa non venire mai.
Poniamoci una domanda difficile: di preciso, che cosa ci riporterà alla piena occupazione? Di certo, non possiamo fare affidamento sulla politica fiscale. La combriccola di chi promuove l’austerity ha subito una fenomenale batosta nel dibattito intellettuale, ma “stimolo” è ancora oggi una parola blasfema. E ancora non si vede, e forse mai si vedrà, un ponderato programma per la creazione di posti di lavoro.
L’aggressiva azione monetaria intrapresa dalla Federal Reserve – qualcosa di simile a ciò che la Banca del Giappone sta collaudando adesso – potrebbe servire allo scopo, ma invece di diventare più aggressiva la Fed parla di “diminuire a poco a poco” i propri sforzi, e questo ha già inferto danni concreti. Ma ne riparleremo tra un minuto.
Nondimeno, anche se non abbiamo e non avremo una politica finalizzata alla creazione di posti di lavoro, possiamo quanto meno fare affidamento sui naturali poteri di rigenerazione del settore pubblico? Probabilmente no.
È vero che, dopo una recessione prolungata, di solito il settore privato trova buoni motivi per ricominciare a spendere. Gli investimenti in apparecchiature e software sono già di gran lunga maggiori rispetto ai livelli anteriori alla recessione, in buon parte perché la tecnologia fa progressi e se vogliono restare al passo le aziende devono spendere. Dopo che in America, in pratica, non si sono costruite nuove case per sei anni, il settore immobiliare sta cercando di predisporre un recupero. Quindi sì, in definitiva l’economia sta dando qualche segnale di voler guarire.
Tuttavia, questo processo di guarigione non andrà molto lontano se i policymaker lo intralceranno o lo fermeranno, in particolare alzando i tassi di interesse. Non si tratta di una preoccupazione da poco. È risaputo che un presidente della Fed dichiarò che suo compito era quello di togliere di mezzo la caraffa del punch proprio quando l’atmosfera della festa si stava ravvivando. Purtroppo, la storia ci offre molteplici esempi di banchieri centrali che hanno levato la caraffa del punch prima ancora che la festa avesse inizio.
I mercati finanziari, in realtà, stanno scommettendo che la Fed presto ce ne offrirà un ulteriore esempio. I tassi di interesse a lungo termine, che per lo più riflettono le aspettative sui futuri tassi a breve termine, sono schizzati alle stelle dopo il rapporto sull’occupazione reso noto venerdì, rapporto che – ripeto – è stato nel migliore dei casi appena accettabile. Il settore immobiliare potrà cercare di darsi una mossa e ripartire, ma il rilancio adesso deve vedersela con le spese di finanziamento in fortissimo aumento: i tassi sui mutui trentennali sono cresciuti di un terzo da quando due mesi fa la Fed ha iniziato a dire che intendeva ridurre i suoi sforzi.
Perché sta accadendo tutto ciò? La causa, in parte, è che la Fed si trova sotto le costanti pressioni dei falchi monetari, che vogliono sempre una rigida politica monetaria e tassi di interesse più alti. Questi falchi hanno trascorso anni interi a mettere in guardia dal fatto che c’era in agguato un’inflazione galoppante. Avevano torto, naturalmente, ma invece di cambiare idea si sono semplicemente limitati a inventare nuovi motivi — la stabilità finanziaria, e qualsiasi cosa saltasse loro in mente — per reclamare tassi più alti. A questo punto è evidente che in fondo essere falchi monetari è per lo più un modo per abbracciare quella forma di puritanesimo così ben espressa da H.L. Mencken con queste parole: «La paura ossessionante che qualcuno, da qualche parte, possa essere felice». Resta in ogni caso pericolosamente influente.
Purtroppo, nei pregiudizi dei falchi monetari c’è in ballo anche una questione di ordine tecnico. Le procedure statistiche alle quali ricorrono spesso i policymaker per calcolare il “potenziale” economico – il massimo livello di produzione e di occupazione che si può raggiungere senza dar luogo a un surriscaldamento dell’inflazione – si sono rivelate fortemente errate: esse interpretano qualsiasi recessione economica prolungata nel tempo come un potenziale decadimento, così che i falchi possono mostrare tabelle e fogli di calcolo, che si presume servano a dimostrare che non c’è granché spazio per la crescita.
In sintesi, c’è un rischio concreto che una cattiva politica soffochi la nostra ripresa, per altro già inadeguata. Ma gli elettori alla fine non esigeranno di più? Ebbene, è proprio a questo riguardo che mi sento particolarmente pessimista.
Si potrebbe pensare che un’economia povera in modo continuativo – un’economia nella quale sono disoccupati milioni di persone che potrebbero e dovrebbero essere proficuamente occupati, e che in molti casi sono senza lavoro da moltissimo tempo – alla fine scateni lo sdegno dell’opinione pubblica. Ma le scienze politiche dispongono ormai di indiscutibili prove relative all’andamento dell’economia e alle elezioni: a contare è il ritmo
col quale avviene il cambiamento, non il livello.
Mettiamola in questi termini: se durante un anno di elezioni la disoccupazione sale dal 6 al 7 per cento, il presidente in carica quasi certamente ne esce sconfitto. Se invece la disoccupazione resta ferma all’8 per cento per l’intero mandato del presidente in carica, molto probabilmente quest’ultimo o quest’ultima vincerà un nuovo mandato. Questo significa che è possibile esercitare una pressione politica davvero esigua per porre fine alla nostra depressione che, per quanto piccola, si protrae.
Presumo che un giorno salterà fuori qualcosa e finalmente ci riporterà alla piena occupazione. Tuttavia, non posso fare a meno di ricordare che l’ultima volta che ci trovammo in una situazione del genere quel qualcosa fu la Seconda guerra mondiale.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2013, The New York Times


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