Pasta, verdure e salumi quei 5000 prodotti tipici che danno sapore all’Italia

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MALALBERGO (BOLOGNA) — Bastava dire: un pezzo di pane, qualche fetta di salume, un tocco di formaggio… Da oggi in poi, quando si proporrà un menù a un amico o a un cliente, bisognerà però essere precisi. In Italia ci sono infatti 1.438 diversi tipi di pane (assieme a pasta e biscotti) mentre salami, prosciutti, carni fresche lavorate e insaccati sono 764. Non facile nemmeno la scelta dei formaggi, perché se ne contano 472. E tutti assieme pane, salumi e formaggi non sono che una parte delle 4.698 “bandiere del gusto” che coprono l’Italia da Bolzano a Lampedusa. Pere cocomerine, strozzapreti, focaccia con ciccioli, torta ricciolina, mele verdone o pan dolce coi fichi, presi singolarmente non hanno certo grandi numeri. Ma tutte assieme le “bandiere del gusto” (che premiano prodotti «ottenuti secondo regole tradizionali protratte nel tempo per almeno 25 anni») fanno incassare 24 miliardi di euro all’anno. Il picco è in estate, durante le vacanze, quando turisti stranieri e italiani spendono per il cibo il 33 per cento del loro budget.
L’indagine, svolta dalla Coldiretti, racconta un’Italia e un’agricoltura che stanno cambiando. Riscoprire il cappello del prete o la pera volpina non è un ritorno al passato. «Ci sono dei clienti — racconta Roberto Lodi, nell’azienda Corte Roeli di Malalbergo — che mi dicono: “al supermercato ho visto delle pere enormi, lucide e bellissime. Perché tu non le hai?”. Io spiego che se già a marzo mi metto a irrigare e pompare con azoto i miei peri, a settembre avrei anch’io quei frutti grandi e senza sapore. Io punto sulla qualità e per fortuna la scelta si sta rivelando quella giusta».
Può sembrare un paradosso, ma il ritorno al cibo prodotto «secondo le regole tradizionali» è un salto nel futuro. «Nei campi — dice Lodi, che nella sua azienda ha un negozio di “Campagna amica” della Coldiretti per la vendita diretta — non ci sono mai stati confini. Coltivo ad esempio le pere Abate Fetel, dottor Guyot e Conference che sono arrivate dalla Francia secoli fa e che qui crescono meglio che in Francia. Non abbatto gli alberi più vecchi, perché danno frutti meno abbondanti ma più buoni. Soprattutto ci metto la faccia. Questo sono io — racconto nel sito dell’azienda — e queste sono le mie pere, le mie albicocche, i miei asparagi. Ecco come li faccio crescere. Se volete comprarli, ve li mando a casa».
«Affitta un albero», questa la proposta. «Ci sono le immagini delle piante, si sceglie il filare. Con una spesa fra i 55 ed i 60 euro, si riceveranno tutti i frutti dell’albero adottato. Si firma via email un contratto in base all’articolo 1472 del codice civile. Garantiti 15 chili ma quasi sempre sono molti di più. Quelli eccedenti possono essere trasformati in succhi di frutta. Chi compra vede la pianta dalla fioritura al raccolto, sa se e come sia stata concimata. Insomma, pere o albicocche diventano “sue”».
Il coltivatore di Malalbergo e migliaia di altri sparsi nel Paese non si sentono filantropi. «Se porto frutta o verdura al mercato all’ingrosso — lo faccio sempre meno spesso confessa Lodi — prendo 100. Se le vendo nel mio negozio prendo 170. Con la vendita via Internet arrivo a 200. Ma chi compra al dettaglio la frutta che porto al mercato all’ingrosso la pagherebbe almeno 300». Non ci sono eccedenze, perché vengono preparate confetture e tutto ciò che serve all’agriturismo organizzato nell’azienda. «Il segreto è la filiera cortissima, senza intermediari. Oggi il consumatore vuole sapere cosa mangia. E allora nell’agriturismo non si organizzano solo pranzi e cene ma anche corsi di cucina, per fare vedere come il grano cresciuto nel mio campo diventi pasta per i cappelletti o come le zucche violino diventino cappellacci o budino».
La regola dei 25 anni non esclude le novità. «Le cocomere amiaco sono arrivate dal Giappone più di 50 anni fa e sono diventate una “tradizione”, come le pere Williams arrivate dall’Inghilterra». Ci sono “bandiere del gusto” che possono andare lontano, altre no. «L’albicocca Reale d’Imola può viaggiare, è resistente. L’Errani invece no, è troppo morbida, dalla pianta può arrivare solo alla mia bottega. Ma in bocca si scioglie come miele».


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