Una terra che rispetti i migranti il mio sogno da premio Pulitzer

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Era una figura autorevole e gentile, ben conosciuta e rispettata nella nostra comunità. Lui e la sua famiglia abitavano a due passi da noi e li vedevo quasi ogni giorno. Erano fieri del loro paese di origine, infatti, c’era sempre una bandiera tricolore che sventolava davanti alla loro casa. Avevano cinque o sei figli, di cui alcuni afro-americani adottati. Erano la perfetta rappresentazione di una famiglia americana: aperta, affezionata, orgogliosa del proprio progetto di vita, più integrata della mia che era arrivata in America solo recentemente. La famiglia del mio preside era un esempio importante e fondamentale, che dimostrava come gli Stati Uniti non solo accettano ma anche adottano gli stranieri. Grazie al mio preside ho imparato che col tempo, gli stranieri che arrivano in America, possono diventare membri di una nuova famiglia.
Penso spesso a quella famiglia ora che vivo in Italia, a Roma. Mi chiedo quando sarà possibile per gli immigrati in questo paese sentirsi a casa, sentirsi protetti, rispettati. Il mio compito di scrittrice è quello di osservare la vita che mi circonda. E da quasi un anno sto osservando tante persone che si sono trasferite in Italia dal Bangladesh. Le vedo dovunque, ogni giorno, quando vado la mattina in piazza a fare la spesa. Vendono fiori, ombrelli, vestiti, scarpe. Lavorano sodo, in macelleria, ai banchi del mercato, nei bar. Siccome parliamo la stessa lingua, mi fermo a parlare con loro, e gli chiedo come si trovano a vivere in Italia.
Dicono che trovano difficile crearsi una nuova vita qui. Benché siano qui già da tanti anni, si sentono ancora ai margini, appena tollerati, distaccati dal resto della società. I loro figli, nati e cresciuti in Italia, non sono cittadini italiani. Una ragazza che fa la barista, che parla l’italiano molto meglio del bengalese, mi ha detto che secondo alcuni italiani lei è incapace di preparare un vero caffè. Un signore, qui da quasi vent’anni, dice che sua moglie non riesce a cucinare senza ricevere rimproveri perché gli inquilini italiani nel palazzo non sopportano gli odori delle cipolle, dell’aglio, del cibo fritto. Quando gli ho detto che anche gli italiani cucinano spesso con cipolle, con aglio, che anche loro preparano cibi fritti, lui non ha saputo rispondermi. Ha
detto semplicemente: “Per noi è così”. Queste persone sono qui in Italia, ma non fanno parte della società. Vivono in un ambiente resistente, spesso ostile. E mi sembrano rassegnati a questo stato di cose.
Una persona che sta provando a migliorare la situazione degli immigrati in Italia, che si è impegnata per il loro benessere, per la promozione dei loro diritti, è Cécile Kyenge, il ministro dell’Integrazione, il primo ministro nero in un governo della Repubblica Italiana. Una donna di origine congolese, che vive in Italia da trent’anni. È una persona preziosa in questo paese, una donna brava, intelligente, ammirevole, che appartiene senza dubbio all’Italia. La sua nomina è stata un passo importante. Eppure questo ha suscitato delle reazioni spropositate. L’onda di insulti, di provocazioni, di minacce contro il ministro Kyenge (l’ultimo episodio il lancio di banane alla festa del Pd di Cervia) costituisce una specie di violenza: una violenza verbale, ripugnante, che non ha scuse. La vergognosa reazione contro la Kyenge non è altro che lo specchio di una crisi morale che affligge il paese. Ma una crisi può essere anche lo spunto per una svolta. In realtà questa minaccia non colpisce tanto il ministro Kyenge, ma l’Italia intera.
La storia di ogni paese si costruisce attraverso una serie di cambiamenti, di metamorfosi. Il momento in cui avviene una trasformazione è sempre carico di tensione, di paura. Ma è necessario superare la paura di perdere la propria identità, di integrarsi con altre razze, per riuscire ad accogliere gli stranieri e arrivare insieme a un nuovo approdo. In una famiglia l’appartenenza non è solo una questione di sangue, ma di legami, di connessioni, di attaccamenti. Di lealtà. È quello che ho imparato da ragazzina in America, grazie al mio preside, di origine italiana. Un paese, come una famiglia, si rafforza e si arricchisce solo quando riesce ad accettare e apprezzare la sua diversità. Quando la popolazione è più unita che divisa. Quando una terra madre può adottare, proteggere, addirittura abbracciare i figli che hanno bisogno di lei., 46 anni, è nata a Londra da genitori bengalesi ed è cresciuta negli Stati Uniti. Con L’interprete dei malanni (Guanda) ha vinto il premio Pulitzer nel 2000. A settembre uscirà il suo nuovo libro, La moglie


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