I due volti della Fratellanza Carità sociale e Islam radicale

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Per qualche mese, dopo le dimissioni di Hosni Mubarak e l’elezione di Mohamed Morsi alla presidenza della Repubblica, molti governi occidentali, fra cui quello degli Stati Uniti, credettero che la Fratellanza musulmana avesse finalmente maturato nel corso della sua lunga storia un progetto politico compatibile con i principi delle società democratiche. Esistevano segnali promettenti. Nei Paesi musulmani la Turchia di Recep Tayyip Erdogan era diventata popolare anche agli occhi di quegli ambienti islamici che avevano un passato jihadista. In Marocco e in Tunisia i partiti affiliati alla Fratellanza (Partito Giustizia e Sviluppo, Ennahda) sembravano disposti a rispettare le regole del gioco democratico. In Tunisia, in particolare, Ennahda si era dimostrato pronto a guidare un governo di coalizione con i maggiori partiti laici. In Giordania lo sceicco Hamzeh Mansour, leader del Fronte d’Azione Islamica, sembrava pronto a percorrere la stessa strada. Persino l’emergere, soprattutto in Egitto, di un movimento salafita, molto più radicale e intransigente, lasciava sperare che la Fratellanza si fosse sbarazzata della sua componente integralista e fosse diventata, di conseguenza, meno pericolosa. Lo credeva indubbiamente la signora Anne Paterson, ambasciatore degli Stati Uniti al Cairo, quando cominciò a frequentare pubblicamente Morsi e il leader supremo dei Fratelli Mohamed Badie.
Oggi il quadro è cambiato. Anche coloro che disapprovano i metodi del generale Al Sisi e condannano il bagno di sangue degli scorsi giorni ammettono che la linea politica adottata dai Fratelli dopo la conquista del potere era diventata inquietante. Troppo Corano, troppa Sharia, troppe tentazioni autoritarie, troppa ostilità per i costumi laici di una larga parte della borghesia e dei giovani di piazza Tahrir. Dopo avere promesso moderazione e comprensione, Morsi è parso, con il passare del tempo, sempre più prigioniero dalla fazione aggressiva e militante. Ipocrisia? Duplicità? Machiavellismo islamista? La risposta a queste domande è almeno in parte nella storia della Fratellanza e delle sue esperienze.
Il movimento nacque a Ismailia, sul Canale di Suez, nel marzo del 1928. Il suo fondatore Hassan Al Banna era un pio maestro di scuola, allevato in una famiglia che aveva devotamente militato in una confraternita mistica. Era nazionalista e anticolonialista, ma profondamente convinto (a differenza dei nazionalisti liberali del Wafd), che soltanto la religione avrebbe aperto al popolo egiziano la strada del riscatto e della salvezza. Quando parlava ai suoi connazionali diceva: «Noi disprezziamo questa vita, una vita di umiliazione e di schiavitù; gli arabi e i musulmani, qui in questo Paese, non hanno spazio né dignità, e non fanno nulla per opporsi al loro stato di salariati, alla mercé degli stranieri». Questo messaggio sociale e spirituale ebbe subito un successo straordinario. Massimo Campanini e Karim Mezran, autori di «Arcipelago Islam» (Laterza 2007), ricordano che quattro anni dopo, nel 1932, Al Banna portò la direzione del movimento al Cairo, diffuse il suo verbo attraverso il Paese, creò una solida organizzazione che poteva contare su 150 filiali nel 1936, 216 nel 1937, 20.000 seguaci verso la metà degli anni Trenta, forse 500.000 nel 1944, un milione dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Negli stessi anni la Fratellanza scavalcava le frontiere dell’Egitto e cominciava a creare le sue filiali negli altri Paesi dell’Africa del nord e del Levante. Era ormai un movimento politico, con i suoi affiliati e i suoi congressi, ma anche una associazione umanitaria capace di gestire scuole, ospedali, organizzazioni giovanili. La vera svolta, tuttavia, ebbe luogo verso la fine degli anni Quaranta quando una costola della Fratellanza divenne il suo braccio armato, un apparato segreto pronto a impegnarsi nelle lotte politiche e nazional-religiose come il conflitto contro il nuovo Stato d’Israele nel 1948. Preoccupato dalle dimensioni e dalla crescente aggressività del movimento, il primo ministro egiziano Fahmi al Nuqrashi decise di bandirlo e morì, vittima di un attentato, nel dicembre del 1948. Tre mesi dopo venne la vendetta delle autorità: Al Banna fu ferito nel corso d’una manifestazione e «lasciato morire dissanguato dalla polizia». La Fratellanza aveva perduto un leader e guadagnato un martire.
La caduta della monarchia e la proclamazione della Repubblica, nel 1952, sembrò segnare l’inizio della riconciliazione e della convivenza. Elevato alla presidenza dai giovani ufficiali, il generale Mohamed Neghib non era ostile alla Fratellanza; e questa, dal canto suo, aveva salutato con gioia la fine della dinastia e l’esilio di re Faruk. Ma quando si sbarazzò di Neghib ed ereditò la presidenza, il colonnello Nasser non volle concorrenti. Un attentato fallito contro la sua persona nell’ottobre del 1954 gli offrì l’occasione per decapitare, letteralmente, la Fratellanza. I suoi leader e i suoi militanti vennero incarcerati, torturati, impiccati: una purga che durò ininterrottamente sino alla morte del rais nel 1970. Questo scontro fra le due anime dell’Egitto — quella laica e socialista di Nasser contro quella spirituale e sociale dei successori di Al Banna — ebbe l’effetto di rendere la Fratellanza ancora più militante e alternativa. Campanini e Mezran segnalano soprattutto il ruolo di un intellettuale, Sayyd Qutb, giustiziato nel 1966, che lanciò dal carcere, dove passò gli ultimi dodici anni della sua vita, un messaggio sempre più eversivo e radicale.
Durante le presidenze dei successori di Nasser — Anwar Al Sadat e Hosni Mubarak — i rapporti fra il governo e la Fratellanza furono meno tesi. I presidenti diffidavano dei Fratelli, ma approfittarono nelle loro attività sociali e Mubarak, in particolare, permise che avessero una limitata presenza in Parlamento. Dall’interno del movimento, nel frattempo, continuavano a uscire segnali diversi, ora rassicuranti, ora indicativi dell’esistenza di una componente radicale che non era disposta a deporre le armi. L’elezione di Morsi e gli errori della sua presidenza hanno dimostrato che il movimento non è ancora riuscito a superare le sue contraddizioni. Ciò che è accaduto nelle ultime ore potrà soltanto esasperarle.


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