«Prima di Abu Omar aiutai gli italiani in un’altra rendition»

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WASHINGTON — È il 17 luglio. Bob Lady, l’agente condannato per il sequestro di Abu Omar a Milano, è stato appena fermato a Paso Canoas, al confine tra Panama e Costa Rica. L’uomo della Cia è stato sistemato dai poliziotti in una stanzetta. «All’alba, qualcuno bussa alla porta. È un doganiere che mi dice: “Scusi, ci potrebbe aiutare? Qui c’è un cittadino canadese e nessuno di noi parla inglese”». A raccontarlo è lo stesso Bob Lady che abbiamo incontrato in una cittadina nel sud degli Usa. Un colloquio dove l’uomo della Cia spiega la sua verità sulla vicenda dell’imam egiziano e su quanto è avvenuto in seguito.
Lady inizia subito tratteggiando il profilo di Abu Omar: «Un terrorista. Magari oggi non lo è più, ma all’epoca era molto pericoloso. Lo dicono le carte giudiziarie italiane. In quegli anni volevamo fermare chi rappresentava una minaccia per la sicurezza. Periodi duri, serviva scaltrezza per individuare le persone giuste e separarle da chi non c’entrava nulla con il qaedismo». Elementi scovati con lunghe indagini e l’aiuto di diavolerie elettroniche, comprese minuscole «cimici» piazzate in luoghi impensabili.
«Sapevo che l’arresto di Abu Omar era imminente e mi sono sempre opposto al suo sequestro consapevole che avrebbe pregiudicato i rapporti con le forze locali», prosegue Lady. I magistrati, invece, ritengono che l’agente abbia partecipato attivamente al sequestro e seguito l’imam quando fu sottoposto a torture in Egitto. Lui respinge l’accusa e non risponde alla domanda sul coinvolgimento dell’Italia. Su questo rimanda alle affermazioni della sua collega Sabrina De Sousa, altra accusata dell’inchiesta milanese, che in un’intervista ha parlato di «assenso tacito» da parte dei vertici del Sismi. Un quadro in realtà più complesso, con fasi ambigue e con un dispiegamento di uomini esagerato per trovare l’imam, un militante che non stava in clandestinità ma abitava ad un indirizzo ben conosciuto. Come hanno confermato al Corriere altre fonti il rapimento è costato una fortuna, ha portato all’intervento di molti agenti e l’operazione in Via Guerzoni è stata sospesa 26 volte. Per ragioni tecniche, contrattempi e opportunità.
Lady sostiene di aver aiutato l’Italia ad arrestare un criminale pluriomicida. «Una rendition anche quella», dice. Lo hanno attirato in un Paese terzo e poi catturato, quindi sono arrivati gli italiani che lo hanno preso in consegna. Ora è in galera, dove sconta una lunga condanna. Il suo passato di poliziotto a New Orleans, la gavetta fatta sulla strada e un carattere gioviale hanno aiutato a Lady a stringere rapporti con poliziotti e carabinieri. «Con loro ho sgobbato notte e giorno», cercando non solo i terroristi ma anche i mafiosi russi. Poi è arrivato il sequestro di Abu Omar da parte della Cia (febbraio 2003) e la successiva inchiesta. Lady è rimasto con il cerino in mano. La casa che si era comprato a Penango (Asti) dove avrebbe voluto trascorrere la pensione è stata confiscata. «L’ho persa. E con lei mia moglie. Poi tutti i miei ricordi e i progetti per il futuro», aggiunge Lady. Le indagini hanno accertato che la decisione di condurre il sequestro è stata presa dal capo stazione Cia in Italia, Jeff Castelli. Voleva anche lui delle «teste» da offrire alla Casa Bianca come bottino di caccia. Tra queste c’era quella di Abu Omar. Probabilmente non la sola.
Lady è tornato da dove è partito, in Centro America. Infatti è nato nel 1954 in Honduras, quindi è emigrato negli Usa «con appena 20 dollari in tasca». Voleva fare il medico e si è trovato ad aggiustare caldaie. Poi la divisa da poliziotto, quindi la Cia e le missioni sotto copertura in posti difficili. Le conoscenze di quel passato sono tornate utili nel presente. Pur ricercato, ha continuato la sua professione. Ed ha lavorato «da privato» per tirare fuori dai guai cittadini americani. Come Eric Volz, arrestato in Nicaragua per un caso di omicidio. Ingaggiato dalla famiglia, l’ex agente Cia ha usato la sua esperienza per risolvere il caso. E ha licenziato l’avvocato locale di Volz. Il legale si è subito vendicato spiattellando chi fosse Lady e bussando persino alla porta dell’ambasciata italiana. L’ex agente è scappato in Honduras, per poi rientrare senza che nessuno muovesse un dito per fermarlo in un Paese non proprio amico degli Usa. Infine il rocambolesco fermo a Panama in luglio, un segnale che la libertà di movimento in quella che considera suo territorio è finita.
Ora Lady spera nel perdono dell’Italia per quella che è stata una grave violazione della nostra sovranità e non esclude di tornare. Auspica che il presidente Napolitano gli conceda la grazia. Cerca di chiudere una storia intricata dove non tutto è emerso. Ma la via d’uscita è angusta. Anche per chi è convinto di averle viste tutte.
Guido Olimpio


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