Al Sisi, una Sfinge macchiata di sangue

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Nelle ore che hanno preceduto l’intervento delle forze di sicurezza contro gli accampamenti della Fratellanza musulmana, Mohamed ElBaradei, vicepresidente del Consiglio ed ex direttore della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, aveva cercato di convincere i militari a ritardare l’operazione. Pensava che vi fossero altri mezzi, meno violenti, per disperdere i dimostranti e temeva che un duro intervento della polizia avrebbe danneggiato l’immagine dell’Egitto a Washington e nel mondo.

Le sue esortazioni alla prudenza sembravano avvalorate da qualche segnale conciliante che veniva dall’ala meno bellicosa della Fratellanza. Fra i seguaci dell’ex presidente Morsi vi erano gruppi, a quanto pare, che erano disposti a negoziare purché i militari avessero accettato la mediazione di Ahmed Al Tayeb, sceicco e grande Imam della moschea di Al Azhar, la maggiore istituzione religiosa dell’Islam sunnita. Ma il generale Abdel Fattah Al Sisi non ha dato retta a ElBaradei, ha ordinato lo sgombro delle piazze occupate, ha verosimilmente autorizzato l’uso indiscriminato delle armi, è responsabile di un bagno di sangue che potrebbe competere, per le sue dimensioni, con quello provocato da Mubarak (800 morti, secondo gli accusatori) prima del crollo del suo regime. E’ Abdel Fattah Al Sisi quindi, il maggiore regista della crisi egiziana; ed è anche per molti aspetti il suo personaggio più enigmatico.
Al Sisi deve a Mohamed Morsi il suo grado e la sua autorità. E’ comandante delle Forze armate, ministro della Difesa e della Produzione bellica perché il leader della Fratellanza ritenne che sarebbe stato il migliore e il più leale degli interlocutori possibili. E’ un devoto musulmano. E’ marito e padre di donne che portano il velo. E’ autore di una tesi, scritta durante un soggiorno militare negli Stati Uniti, in cui si afferma che nessun regime democratico medio-orientale può ignorare le tradizioni religiose dei Paesi musulmani. Non appena Morsi ha conquistato la presidenza, un anno fa, Al Sisi gli ha mandato un messaggio che conteneva una calorosa manifestazione di lealtà. Il 24 luglio, due settimane dopo la deposizione di Morsi, di cui era personalmente responsabile, ha approfittato di una cerimonia militare, in occasione della promozione di una classe di cadetti, per chiedere ai suoi connazionali il «favore» di scendere in piazza e manifestare pubblicamente alle Forze armate il sostegno della nazione. Non parla il linguaggio dei dittatori militari, non combatte la Fratellanza sul piano della laicità e non sembra avere un programma politico se non quello del ritorno all’ordine. Dopo il collasso della monarchia nel 1952, l’Egitto ha avuto un presidente nazionalista e socialista, Gamal Abdel Nasser e due presidenti nazional-conservatori, Anwar el Sadat e Hosni Mubarak. Nasser fu un dichiarato nemico della Fratellanza, Sadat e Mubarak hanno alternato politiche repressive a qualche fase di maggioranza tolleranza. Ma ciascuno dei tre presidenti ha difeso le tradizioni laiche di un Paese che non ha mai smesso di ispirarsi, per la propria modernizzazione, alle istituzioni occidentali. Che cosa diventerà l’Egitto di Al Sisi?
Non è la sola domanda che dovremo porci nelle prossime settimane. Oggi esiste un Fronte nazionale contrario alla Fratellanza e composto dai militari, dal vecchio apparato politico-burocratico del regime di Mubarak, da quelle forze giovanili e democratiche che hanno tenuto saldamente piazza Tahrir sino alla caduta del tiranno e vogliono un Paese laico, moderno, aperto ai nuovi diritti umani e civili delle società avanzate. Che cosa faranno quando si accorgeranno che Al Sisi è pronto a fare un uso spregiudicato della violenza, crede apparentemente nel primato della fede sulla politica e potrebbe calare bruscamente il sipario sull’Egitto dei loro sogni e delle loro speranze?
Non è sorprendente che gli americani siano stati sinora incerti, ambigui e reticenti. Dal 2011 l’Egitto è stato teatro di due colpi di Stato militari: quello che ha costretto Mubarak a dimettersi nel febbraio 2011 e quello che ha trasferito Morsi dal palazzo presidenziale a una prigione nelle ultime settimane. Ma in questi due anni la parola «golpe» non è mai stata utilizzata dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato. Ipocrisia? No, più semplicemente il fatto che il Congresso, se l’Esecutivo ammettesse l’esistenza di un colpo di Stato, potrebbe invocare la regola che non consente agli Stati Uniti di sostenere finanziariamente un regime in cui un governo eletto dai propri cittadini è stato abbattuto con la forza. Gli americani non possono ammettere pubblicamente l’utilità di un colpo di Stato, ma hanno preferito sperare, almeno sino a due giorni fa, che i militari, sia pure con qualche strappo al galateo democratico, avrebbero garantito il ritorno all’ordine e alla democrazia. L’assegno annuale, destinato in buona parte alle Forze armate (più di un miliardo di dollari), è il prezzo che gli Stati Uniti pagano da molti anni per avere il diritto di parlare al Cairo con l’autorità del protettore e anche, incidentalmente, per indurre i governi egiziani a collaborare con Israele soprattutto lungo la turbolenta frontiera del Sinai. Oggi il colpo di Stato è innegabile, il Sinai è già una pericolosa terra di nessuno, infestata dalle formazioni combattenti dell’islamismo radicale, e il sangue versato nell’ultime ore costringerà Washington a rivedere interamente la sua politica egiziana. Il problema è anche europeo. Spero che l’Ue non si limiti ancora una volta alle compunte deplorazioni di Lady Ashton.
Sergio Romano


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