GENTE DI TRINCEA

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MONTE SEI BUSI. Caro Andrea, caro Michele, figli miei, vi scrivo in mezzo a un groviglio di trincee. Voglio farlo subito, prima che la freschezza del ricordo svanisca. Un’ora fa sono saltato dentro un camminamento austriaco, dopo essere strisciato sull’erba dalle linee italiane con addosso i vestiti bagnati e puzzolenti del giorno prima, come un fante qualsiasi. Un’esperienza incancellabile. Ho impresso nella retina il film che quattro milioni dei vostri bisnonni hanno vissuto in battaglia, qui e in altri punti di questo fronte interminabile. Quattro milioni senza contare gli austro-ungarici. Non dimenticatelo: abbiamo anche le loro divise grigio-azzurre nella nostra genealogia di triestini.
Siamo sul Monte Sei Busi, là dove muore la pianura contro il primo saliente del Carso, sopra una curva dell’autostrada a Est di Redipuglia. Vista nitida sulle Alpi dopo un temporale notturno. In primo piano il colle del San Michele, San Martino del Carso, Doberdò. Un fazzoletto di terra che ha inghiottito centinaia di migliaia di vite. Dall’altra parte la pianura, i campanili, le ghiaie dell’Isonzo, il mare, l’Istria. Mi guida Lucio Fabi, magro, occhi azzurro adriatico e criniera argentea fiammeggiante. Uno che non se la mena, anche se ha scritto come pochi di guerra e di trincee.
Quota 118. Ai due lati di una strada sterrata, immaginate postazioni quasi intatte con feritoie nel cemento: sono le retrovie del secondo fronte, quello consolidato cinque-sei chilometri più a Est dopo la Sesta offensiva del ’16. Lì non è successo quasi nulla, ma il carnaio è a due passi, sull’orlo del Carso verso la pianura, nascosto da cespugli che in autunno s’incendiano di rosso-sangue. Niente cartelli, niente restauri, le fosse sono state riempite di pietre dai pastori e colonizzate da cespugli. Erba secca pettinata dal vento; cardi grigio- azzurri come le divise imperiali.
Sembra facile, perché è tutto lì, in pochi metri. Ma senza un occhio allenato non vedi. Anche Lucio fatica a trovare il punto: un’ex trincea austriaca presa dagli italiani e segnata dall’emblema del Quinto squadrone guide. Bisogna errare a lungo alla cieca, per entrare nel tempo.
«Dev’essere di qua — lo sento dire — no scusa, ho sbagliato ancora». S’è portato dietro il suo “Gente di trincea”, un coro di testimonianze come pugni nello stomaco. Ne riporterò alcune tra le righe.
Ecco l’avvallamento, ben mimetizzato. Ora ci siamo. Lo stemma italiano scolpito mostra un uomo e una donna nudi con una ghirlanda. Sotto, firme in corsivo: cap. Rodrigo… sott. Fausto Fontana… Un lavoro a regola d’arte. Come ci sian riusciti in quell’inferno lo sa solo l’Altissimo.
La linea austriaca è lì. Comincio a misurarne la distanza. Quindici, sedici, diciassette passi. Sto grondando, con addosso quel grigioverde infeltrito. Trentasei, trentasette, trentotto. Pare che tra nemici ci si distinguesse a naso, come i cani. Cibi diversi, sudori diversi, escrementi diversi. Cinquantadue, cinquantatré. Puzza austriaca e puzza italiana. Chissà che genealogia svelano i miei ormoni. Sono davanti al nemico. In tutto sessanta passi, meno di cinquanta metri. Solo cinquanta. Un incubo.
“A Selz le trincee distavano anche dieci metri. L’era gente che usciva di notte a pugnalare, noi gli austriaci, e gli austriaci pugnalavano noi. Lì chi era ferito doveva morire; chi usciva di trincea doveva morire lì, perché nessuno si arrischiava”.
Rifaccio il percorso strisciando come per l’assalto. Terreno pietroso nonostante l’erba. Senza lo scafandro di lana non ce la farei. Gli ufficiali sono i soli ad avere giacche estive ma gli tocca mettere ginocchiere per non ferirsi. Sto entrando nel tempo.
“In faccia vi sono dei morti che anno già la faccia nera ma si vedono i denti bianchissimi e una puzza che se facesse caldo non si potrebbe resistere e lungo la trincea ne vedo diversi che sembra che dormano e ne vedo degli altri che sono metà sepolti e metà fuori dalla terra”.
La voce di Lucio come in dissolvenza. Annaspo, eppure non ho moschetto, non ho il tascapane con le cartucce, non ho sacchi di terra per la trincea provvisoria, non ho i viveri, non ho la zappa per proteggermi dagli Schrapnel. Schianto lo stesso, senza quei venti chili sulle spalle.
“Tutta la zona è granellata di morti: morti recenti che fondono i loro volti nerastri come maschere di catrame: mucchi di stracci seminati da un bivacco di zingari… Eccone uno che tende verso una buca la sua bomba intatta… un altro, bocconi, che nostra, nude, le natiche crivellate da fori come setacci”.
Un’upupa frulla le ali dagli alamari bianco- neri. Mosche, zanzare, tafani. Abito senza sforzo il tempo dell’azione. Il panno irrita il sottogola, odore di timo che ubriaca. Ora sono oltre i reticolati, il naso sulla convessità del parapetto e rotolo esausto nell’avvallamento.
“Passato i rotticolati ci lanciammo nei camminamenti, io lo sguardo d’attorno svolsi, e con coraggio avanti, feno che mi trovai di faccia in fondo al camminamento li tedeschi, e là scridai di arrendersi, e l’oro alzarono le mani, e uno mi baciava pregandomi di aver salva la vita”.
Mi accorgo di un dettaglio surreale: non ho gridato “Savoia!”. Resto lì, esausto, nell’erba secca tra le cicale. Lucio mi scuote, quasi mi grida che in trincea non sempre chi si arrende è risparmiato, mi passa un’altra delle voci riportate nel suo libro.
“La porta si sfascia, esce fuori un maggiore, cadaverico, e fa per consegnare la pistola al capitano Luraschi… Il capitano gli scarica due colpi da cinque metri… esce un’altra brutta faccia, buttiamo giù anche quello… massacriamo un figuro che grida come un ossesso: ‘Sanité’…”.
Ragazzi, ci ho messo un bel po’ a svegliarmi dal tempo, dalla ferocia, dall’inconcepibile. Ora posso dirvi che una cosa simile non basta leggerla. Bisogna evocarla, sul posto. «Non puoi capire se non ti pisci addosso» mi ha detto tornando alla macchina il bravo Lucio. Non scherzava affatto.
(8 – continua)


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