Il business dell’ecomostro mai finito che sfregia la costa di Sorrento

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Basta, buttatelo giù l’ecomostro di Alimuri (nella foto a sinistra). Non ne possiamo più di vederlo, mostro tra i mostri, ancora lì. Piantato sotto la roccia a strapiombo. Ritto a lanciare ai turisti sospiranti in navigazione verso il mito di Sorrento una volgare pernacchia cementizia: io sto qua. Orrendo. Simbolo perenne dello spreco di bellezza.
Sono passati 50 anni, da quando la Soprintendenza ai monumenti di Napoli, cose da pazzi, elaborò un contorto via libera all’assalto edilizio della costiera sorrentina. A Palazzo Chigi c’era Giovanni Leone, agli interni Mariano Rumor. Antonio Cederna si sgolava a denunciare: «Le meraviglie artistiche e naturali del “Paese dell’arte” e del “giardino d’Europa” gemono sotto le zanne di questi ossessi», questi vandali che «per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d’animo o semplice bestialità, vanno riducendo in polvere le testimonianze del nostro passato».
Urlava tra i sordi, però. Sulla base di quel dissennato parere della Soprintendenza, il Comune di Vico Equense che non vedeva l’ora di distruggere le proprie coste meravigliose, rilasciò il 9 marzo 1964 la licenza edilizia n.67. La quale consentiva a cinque compari di costruire un immenso hotel da 18mila metri cubi in località «La conca», a ridosso del confine con il territorio di Meta di Sorrento. Avete presente quanti sono 18mila metri cubi?
Minimo minimo centocinquanta camere. Più tutto il resto, dai saloni ai servizi vari.
C’era però, in quella autorizzazione, qualcosa che non andava. E mentre i muratori erano al lavoro per tirar su più in fretta possibile l’orrendo manufatto («cosa fatta, capo ha»), cambiarono le leggi e cambiò la giunta comunale. E sotto la minaccia di un intervento della magistratura, il terrificante scheletro di cemento armato fu bloccato e rimase lì, a pancia all’aria, spoglio di ogni parete, coi pilastri conficcati nel vuoto verso il cielo. Chiusi i cantieri, si apriva una decennale battaglia di carte bollate, ricorsi e controricorsi.
Battaglia centrata tutta sul tema dibattuto in altre mille inchieste di mille tribunali: un’autorizzazione già data può essere revocata o resta in vigore per l’eternità, sacra come la reliquia di Santa Rita, anche nel caso le leggi fossero sbagliate o peggio ancora fosse sospetta la concessione? L’aspetto più stupefacente della storia, però, è un altro. E cioè il fatto che quello scheletro considerato abusivo e dunque da abbattere, abbia trovato via via nuovi compratori indifferenti all’ipotesi che arrivassero le ruspe.
Man mano che diventa il simbolo della speculazione più becera e del più insultante affronto alla costa del Golfo di Sorrento, l’Alimuri anziché essere buttato giù, scrive Vincenzo Maresca sul periodico Inchiesta sociale, «viene venduto nel 1988 alla società “La conca srl” per 240 milioni di vecchie lire e successivamente ceduto nel 1993 alla società “Sa.An.” per l’incredibile cifra di 2 miliardi e 700 milioni di lire, importo record per l’epoca per un rudere destinato a essere abbattuto».
Ma non è finita. Anzi. «Nel 2006 alla “Sa.An.” subentra un’altra società, la “Sica srl” nel cui organigramma compare il nome di Anna Normale, una imprenditrice appartenente ad una nota famiglia napoletana». E chi è il marito di Anna Normale? Andrea Cozzolino, il braccio destro del governatore Antonio Bassolino. Quattro anni dopo, finirà sulle prime pagine dei giornali italiani: vinte le primarie del Pd per subentrare a Rosa Russo Jervolino sulla poltrona di sindaco di Napoli, sarà costretto a farsi da parte dopo durissime polemiche interne sull’anomalo afflusso alle urne di immigrati cinesi e più ancora su presunte interferenze di ambienti vicini alla camorra. Non ancora noto nel resto d’Italia, in quel 2006 in cui la società della moglie compra l’Alimuri, Cozzolino è però un uomo potentissimo a Napoli e dintorni: è infatti assessore regionale alle Attività produttive e all’Agricoltura.
E che succede, l’anno dopo l’acquisto? Succede che Francesco Rutelli, ministro dei Beni Culturali, annuncia in piena estate che entro la fine di ottobre il famigerato scheletro dell’albergone sarà abbattuto. Ambientalisti in festa, trombe e grancasse finché il Corriere del Mezzogiorno, pochi giorni dopo, titola: «Ecomostro, ombre sul patto». Nella cronaca, Fabrizio Geremicca spiega che il governo, per buttar giù lo scheletro, ha concesso alla società proprietaria e dunque anche alla moglie dell’assessore varie cose. Primo: l’abbattimento che costerà oltre un milione di euro sarà a carico soprattutto delle pubbliche casse. Secondo: come risarcimento per l’arrivo delle ruspe, sarà concesso ai proprietari di costruire un albergone altrettanto grande da un’altra parte del territorio di Vico Equense. Terzo: una volta sistemato il terreno e consolidata la parete a strapiombo, gli stessi proprietari potranno farci uno stabilimento balneare.
Apriti cielo! Mentre la moglie dell’assessore manda una lettera spiegando che il marito non c’entra e che lei è solo «un’imprenditrice che da anni lavora con passione», il presidente della commissione ambiente del Senato, il rifondarolo Tommaso Sodano, salta su contro l’accordo, «spropositatamente generoso». E raccoglie intorno alla protesta il consenso di altri 33 parlamentari. La sinistra si spacca. Di qua quelli decisi a contestare tutti i punti dell’intesa e a chiedere l’abbattimento tout court. Di là quelli convinti, come Matteo Renzi, che il gioco valga comunque la candela: «In Italia a chi dice sempre e solo “no” bisogna contrapporre la politica che realizza e cura gli interessi di tutti. No ai termovalorizzatori, no alla Tav, no addirittura all’abbattimento degli ecomostri che deturpano il nostro Paese…».
Fatto sta che da allora sono passati altri sei anni. E lo scheletro dell’hotel Alimuri è sempre lì. Con i soffitti qua e là sfondati, i tondini di ferro arrugginiti, la recinzione tirata su per impedire l’accesso ai ragazzi più spericolati (uno ha rischiato di restare paralizzato nel crollo di un solaio da dove voleva tuffarsi in mare) in condizioni disastrate. Ma non è solo una questione di sicurezza: l’impatto visivo, là dove un tempo svettava solo un faraglione, è devastante.
Prospettive? Boh… Anche a recuperare quell’accordo così esageratamente generoso, spiega Antonio Irlando, presidente dell’Osservatorio archeologico vesuviano e autore del libro fotografico «Vico Equense, che bellezza!», «andremmo incontro a un pasticcio. Per recuperare il terreno nel vallone di Seiano da dare a quei privati padroni del manufatto abusivo, il Comune dovrebbe espropriare un altro privato e poi cambiare la destinazione d’uso del lotto con una variante. Mah… Comunque l’espropriato potrebbe aprire una nuova causa giudiziaria destinata a durare altri decenni…».
Col rischio che intanto il mostro resti lì. A sfregiare la bellezza di una costa che ispirò quei versi indimenticabili: «Vide ‘o mare quant’è bello / spira tanto sentimento…».


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