Il conflitto indispensabile

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Sul piano dei programmi, il dilemma che divide la sinistra è sempre quello. Tra chi sostiene che il capitalismo vive di privilegio e disuguaglianza e non c’è compromesso possibile. E chi pensa che il capitalismo sia contenibile e disciplinabile. La globalizzazione e le riforme ispirate dal neoliberalismo (e dalla sua variante edulcorata del New Labour) hanno complicato il compito. Ma l’esperienza insegna che qualche spazio per domare il capitalismo si può ancora trovare. Merita la lettura, ad esempio, la stimolante riflessione condotte da Salvatore Biasco in un libro apparso pochi mesi fa (Ripensare il capitalismo, Luiss University Press, Roma, 2012).
Quale che sia la scelta tra l’uno e l’altro orientamento, un punto accomuna le sinistre: lo strumento per rimuovere, o attenuare, privilegi e disuguaglianze, è la politica. Entrambe tuttavia non paiono consapevoli a sufficienza del fatto che non serve una politica qualsiasi. Chi ha da ultimo discusso sul futuro della sinistra sulle pagine di questo giornale ha invitato le sinistre radicali a convergere, addirittura su scala continentale, ad aprirsi alla società civile e alla combattiva sinistra di movimenti e associazioni che si spendono in difesa della legalità, dei beni comuni e via di seguito. Ammesso però che sia fattibile oggi quel che non si è fatto ieri, è dubbio che unificare le sinistre radicali, rendendole elettoralmente più efficaci, serva davvero allo scopo.
Non meno dubbio è che lo scopo sia perseguibile seguendo la strada che al momento percorre il partito democratico. Lasciamo perdere la sua scomposta rissosità interna. Dimentichiamo l’inaffidabilità politico-culturale di alcune sue componenti, cui di contrastare privilegio e disuguaglianza non importa un fico secco. E concentriamoci sull’opzione leaderista che il Pd coltiva in materia d’istituzioni democratiche. L’obiettivo delle riforme istituzionali per il Pd non è coinvolgere di più i cittadini nella vita politica, ma immunizzarsi dalla loro crescente estraniazione, estromettendo in pari tempo dalla competizione elettorale ogni concorrente scomodo. Tanto nell’illusione – d’impronta tecnocratica – che, una volta insediato un governo stabile, la sua efficacia sia garantita.
In realtà, come prova il fallimento delle aspirazioni riformatrici di leader sulla carta potentissimi come Obama e Hollande, non è per nulla detto che è un’evoluzione leaderista e tecnocratica delle istituzioni sia risolutiva. La riforma sanitaria di Obama è poca cosa. Mentre Hollande si sta rivelando non meno impotente dei suoi predecessori di destra.
Mezzo secolo fa un illustre politologo scandinavo scriveva che i voti contano, ma le risorse decidono. E di risorse le sinistre, riformiste o antagoniste, ne hanno poche. Possono vincere le elezioni. Magari con l’artificio di un sistema elettorale che trasformi il rospo di una minoranza elettorale nel principe di una maggioranza presidenziale o parlamentare. Ma non basta presidiare qualche ministero per contrastare la coalizione del privilegio e della disuguaglianza, cui si è permesso di diventare così potente da essere quasi incontrastabile. Controlla i mercati, controlla i media, ha una formidabile capacità di persuasione: persuade finanche le sue vittime che è lei ad aver ragione. Figurarsi se basta entrare nella stanza dei bottoni, tanto più che i bottoni ormai stanno da un’altra parte.
Biasco nel suo libro rammenta che una volta c’erano lo Stato e il settore pubblico dell’economia. Il secondo in Italia è stato malamente svenduto e le pubbliche amministrazione sono state drammaticamente mortificate. Non è però affatto detto che, ove vi fossero ancora, basterebbero. Non bastano in Francia, dove l’ortodossia neoliberale e privatistica è stata applicata con assai più prudenza. Il punto perciò resta quello. La risorsa politica fondamentale di cui la sinistra, antagonista o riformatrice che sia, disponeva una volta, e che ora le manca, è l’azione politica collettiva organizzata. A Obama manca un retroterra di massa come quello di cui, grazie ai sindacati, si valse il riformismo di Roosvelt e di Johnson, e Hollande è orfano della robusta disponibilità all’azione collettiva che sostenne il riformismo welfarista delle Trenta gloriose.
Il grande assente, per essere chiari, è il conflitto sociale. Eppure, la disponibilità al conflitto persiste. Anche se lo fa per rafforzare il suo malfermo governo, non ha torto il presidente Letta quando denuncia il rischio di un autunno caldo. I disastri perpetrati dal capitalismo selvaggio colpiscono fasce sempre più ampie della popolazione, che, come testimoniano i tanti movimenti d’indignati fioriti in giro per il pianeta, non sono poi tutte rassegnate, benché la loro protesta non abbia ancora trovato un credibile sbocco politico.
In Italia si è finora visto poco. L’indignazione si è appuntata contro il malaffare elevato a sistema. Ma sono tantissimi coloro che ne hanno abbastanza anche per altri motivi. Hanno provato in ogni modo a testimoniarlo, seppure con poco frutto. L’astensionismo di massa ha provocato solo lacrime di coccodrillo e la promessa del presidenzialismo; i voti a Grillo sono stati buttati al vento; l’esito del referendum sull’acqua pubblica è stato spudoratamente ignorato. Ne consegue che un’enorme riserva di malcontento cova nei luoghi di lavoro e nelle piazze. Quello di quanti sono stufi di pagare sulla loro pelle i costi altissimi delle truffe bancarie, dell’evasione fiscale, della spoliazione del patrimonio industriale, della devastazione della scuola, della sanità pubblica, dell’ambiente.
Prima che all’orizzonte compaia qualche altro demagogo che fabbrichi un successo elettorale sulle loro sofferenze, c’è dunque qualche possibilità che la sinistra, riformista o antagonista che sia, ricominci a parlare il linguaggio del conflitto e trasformi in azione politica le energie che potrebbero scaturirne? Ove non fosse definitivamente accecata, per una sinistra altrimenti condannata all’impotenza l’autunno caldo è, a ben pensarci, un’opportunità da non perdere.


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