Il principe rosso in aula La Cina allo specchio nel processo del secolo

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PECHINO — Un anno esatto dopo la moglie, tocca al marito. Si chiuderà con grande probabilità oggi la saga della «famiglia rossa» che sognava di scalare il potere in un riesumato stile maoista e invece si è ritrovata dietro le sbarre. Il 20 agosto del 2012 Gu Kailai è stata condannata a morte, pena sospesa per due anni che dovrebbe essere commutata in ergastolo, per l’omicidio del businessman britannico Neil Heywood. Ora davanti ai giudici, aula numero 5 del tribunale di Jinan, Cina Orientale, compare Bo Xilai, 64 anni, l’ex numero uno del Partito a Chongqing, costretto a rispondere di accuse come abuso di potere, corruzione e appropriazione indebita.
Il processo è stato preparato con cura e segretezza. Come vuole la prassi cinese, tutto è stato definito nei particolari e Bo, discendente di una famiglia rivoluzionaria della prima ora — suo padre Bo Yibo arrivò ai vertici del potere — salvo sorprese farà la sua parte, come già la consorte, senza uscire dal copione: dichiarandosi «colpevole».
A Jinan va in scena un caso giudiziario — per il protagonista — che non ha precedenti se non la drammatica e chiassosa condanna di Jiang Qing, vedova di Mao, e degli altri componenti della «Banda dei Quattro», nel 1980. Il capoluogo della provincia dello Shandong, sufficientemente lontano da Chongqing, si è riempito di giornalisti, cinesi e stranieri, che tuttavia rimarranno con grande probabilità fuori dal tribunale, mentre solo uno sparuto gruppo di «sostenitori» ha brevemente manifestato aprendo striscioni che proclamavano l’«innocenza» dell’ex leader neo-maoista: «Bo Xilai non è corrotto. Lavora per il popolo, è un buon funzionario».
Carismatico, deciso, spregiudicato, il «principe rosso» aveva in effetti raggiunto una popolarità che travalicava i confini della sua municipalità. Bo aveva riesumato slogan e inni di un passato che sembrava sepolto con l’era «pragmatica» di Deng Xiaoping. I suoi riferimenti a Mao, al «servire il popolo» — che lui metteva in pratica favorendo le classi più disagiate, per esempio, nell’assegnazione di alloggi — i suoi chiassosi raduni di massa avevano innervosito più di un leader a Pechino. Ma la fuga del suo braccio destro Wang Lijun, che aveva cercato brevemente asilo, nel febbraio 2012, nel consolato americano di Chengdu, capoluogo del vicino Sichuan, aveva offerto l’occasione di bloccare sul nascere le ambizioni «eterodosse» di Bo Xilai. Wang — condannato con Gu Kailai, anche se a una pena inferiore: 15 anni — vicesindaco e capo della polizia a Chongqing e l’uomo che «combatteva la corruzione» nel nome del leader, avrebbe svelato i segreti capaci di portare alla rovina l’intera famiglia: accumulo di ricchezze — denaro ma anche favolose ville all’estero, compresa una in Costa Azzurra — e, addirittura, l’omicidio di Neil Heywood. All’uomo d’affari britannico era stata anche attribuita una relazione con Gu Kailai: era stato lui ad aiutare la famiglia a trasferire all’estero milioni di dollari. In un primo momento sembrava essere morto per cause naturali.
Non era andata così. Dopo Wang, la prima a finire in prigione era stata proprio Gu, una moderna «Lady Macbeth» d’Oriente, poi descritta come «innamorata del potere e senza scrupoli»: la sentenza dice che fu lei a ordinare l’omicidio. Infine, nel marzo 2012, la caduta di Bo Xilai, accusato di aver cercato di coprire le malefatte della moglie — di qui il «tradimento» di Wang Lijun — e di essersi arricchito a dismisura. Fuori dal quadro rimane ora soltanto Bo Guagua, 25 anni, il figlio studente a Harvard, cresciuto nel lusso e «risparmiato» dagli eventi, forse in base a un accordo tra il padre e le autorità. Giorni fa, Guagua ha dichiarato al New York Times che «avrebbe considerato immorale» una condanna del genitore in cambio di una garanzia per la sua «incolumità». Vedremo oggi se rimarrà dello stesso parere.
Paolo Salom


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