Nelle moschee-rifugio Dormitori, ospedali e alla fine obitori

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Quando la guida spirituale termina il sermone del venerdì con un invito alla pace, la piazza risponde con un boato che diventa un battimano ritmato e poi uno slogan: «Il sangue dei nostri martiri proteggerà l’Islam». Ancora: «Con i nostri corpi e le nostre anime salveremo l’Islam». L’imam, la guida spirituale, detta la linea alla piazza, si direbbe. Poche ore dopo quegli stessi musulmani devoti trasporteranno sotto le grandi volte della cupola le vittime degli scontri. E in serata la polizia assedierà il tempio islamico, dove risuoneranno anche colpi di arma da fuoco. Nelle ultime settimane alcune delle 28 moschee del Cairo sono diventati luoghi cruciali della rivolta guidata dai Fratelli musulmani. Preghiera e meditazione si sono mescolate, con sorprendente naturalezza, a rabbia, recriminazione, grida di battaglia. Il patio, le scalinate, gli ambienti cari al Profeta sono diventati prima depositi, dormitori, mense, poi ospedali. Infine terribili obitori. Difficile dimenticare l’acre odore dei disinfettanti, il brusio dei vecchi ventilatori, le stecche di ghiaccio nella piccola El Eman, dove tra il 14 e il 15 agosto giacevano più di 200 corpi, stretti in lenzuola macchiate dal sangue e dal fango. Fino a pochi giorni fa era un posto anonimo, in una zona dignitosa, piccolo borghese verrebbe da pensare, ma comunque lontano dalle luci dei grandi alberghi, dai palazzi eleganti della Corniche, la sponda più ricercata del Nilo. Ora, invece, El Eman fa parte del martirologio dei Fratelli musulmani esattamente come la moschea di Rabaa Al Adawiyah, costruita solo 25 anni fa nel nome della più venerata donna Sufi, espressione mistica nell’Islamismo delle origini. Qui i Fratelli musulmani (e non solo) si sono ricompattati dopo il colpo di Stato militar-popolare del 3 luglio scorso che ha rovesciato il presidente Mohamed Morsi. Qui hanno costruito una cittadella di tende, materassi, servizi igienici provvisori, portandovi la famiglia, compresi i bambini. Sempre qui, secondo la versione dei militari e del governo ad interim, i sostenitori del partito islamico avrebbero accumulato un arsenale di mitragliette, fucili automatici, molotov. Impossibile, per il momento, verificare quale fosse la dotazione di armi a Rabaa Al Adawiyah. Quello che si può, invece, testimoniare è che la grande maggioranza dei manifestanti, del popolo delle moschee ieri non portava armi. Così è stato anche a piazza Ramses, l’epicentro degli incidenti, con tanti giovani e diverse donne nascoste nei veli integrali, i niqab neri, rabbiosi fin che si vuole, ma disarmati. Le guide, i libri di architettura celebrano la moschea del sultano Hassan, quella di Al Rifai oppure, per venire a tempi più vicini, quella di Mohammed Ali, edificata nel 1830 e oggi vetrina del Cairo nel mondo. Oggi, però, nell’Egitto sofferente emerge una nuova geografia che è insieme sociale, religiosa, emotiva e anche, in ultima analisi, politica. Sono nomi sconosciuti, ignorati dai turisti e forse anche dagli ammiratori più tenaci di questa grande città dominata dai minareti, dalle cupole, dalle mura sacre. Niente a che vedere con lo splendore della cittadella costruita nel 1176 dal Saladino, ma da settimane sul taccuino delle forze di sicurezza sono segnati almeno tre edifici consacrati ad Allah: Amr ibn Elaas, nella vecchia città; al Noor, nel quartiere di Abassya; Mostafa Nahnod. Snodi considerati nevralgici, talmente importanti che ieri gli uomini del generale Al-Sisi li hanno presidiati in forze, esattamente come fossero gli edifici del governo, le ambasciate più esposte, gli hotel frequentati dagli occidentali. Non è bastato. Le donne si sono radunate ad al Noor. Altri cortei sono partiti dalle moschee sorvegliate. Tutti verso Ramses, dove l’Imam Sultan si era appena congedato, lasciando il campo a un altro pomeriggio di sangue.


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